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Spotify “La musica è finita”: gusti e abitudini nell’era 2.0

Ecco come il colosso ha cambiato il modo di intendere l'arte

Ogni rivoluzione arreca con sé gioie e dolori, meraviglia e disagio: l’era di Spotify

Quella digitale, iniziata nel 2002, ha avuto nel corso del tempo a oggi un impatto tangibile sotto molteplici aspetti. Al punto, come era naturale che fosse, da sconvolgere buona parte delle nostre abitudini. Dal modo di relazionarci con l’altro a quello di fare la spesa, dall’approccio allo studio a quello lavorativo. Una rivoluzione che di fatto ha ridefinito persino i canoni dell’intrattenimento, costringendoci a rivalutare in maniera più o meno consapevole – e qualora in possesso di uno spirito critico – il nostro modo di intendere l’arte.

All’interno di questo processo diremmo evolutivo, è stata senza dubbio la musica – prodotta e fruita – ad averne risentito in maniera sensibile. Soprattutto in virtù dell’antica contrappostizione fra la concezione più genuina della stessa in quanto ‘forma d’arte più alta’ e la supponenza delle regole del business cui oggi si trova suo (e nostro) malgrado assoggettata.  

Dalla fine degli anni ’90, con l’avvento di Napster

È andata consolidandosi l’idea comune che la musica non debba essere considerata altrimenti se non in quanto puro e semplice mezzo di intrattenimento, fenomeno commerciale e di costume. Un assunto in parte giustificato: anche la musica attraversa ciclicamente le proprie fasi di aggiornamento in funzione della società e dell’epoca storica con cui deve confrontarsi.

Quello che forse abbiamo lasciato inconsciamente che mutasse mentre venivamo bombardati da pubblicità, eventi promozionali, produzioni incontrollate, è stato proprio il nostro spirito critico (ne abbiamo parlato recentemente con la recensione a Rush! Lo stesso che per essere costruito ha bisogno di tempo ed esercizio come fosse un muscolo.

E dire che Napster era riuscito a suo tempo, grazie al suo sistema p2p gratuito, a sfruttare al meglio il “dramma della pirateria di massa” generato dall’alto potenziale della Rete. Mandando di fatto a puttane qualunque concezione e forma di rispetto del copyright sulle opere d’arte.

Ci vollero circa un paio di anni prima che le conseguenze legali (Metallica docet) facessero abbastanza rumore da costringere l’azienda ad accettare il compromesso che l’ha mantenuta in vita finora: fornire un servizio a pagamento per la fruizione degli mp3. Nel frattempo però l’algoritmo di compressione audio aveva soppiantato la materia, il disco, e la musica cessava di essere a tutti gli effetti un’arte da custodire e apprezzare. Qualcuno ricorda il momento in cui ce la siamo ritrovata anche nei supermercati mentre facevamo la spesa?

In poco tempo la bestiola creata da Shawn Fanning e Sean Parker ha ceduto il passo ad altri esperimenti simili, più o meno rispettabili. Fino a quando abbiamo accolto, ufficialmente nel 2006, il più grande servizio di streaming on demand musicale della storia: Spotify. Sulla nuova piattaforma ci si sono buttati a capofitto prima le star della musica commerciale, dato sì che nessuno comprava più i dischi e che i guadagni sicuri si facevano più facilmente con le visualizzazioni del signolo brano.

spotify

Poi è stata la volta degli emergenti che ancora oggi, subito dopo i dovuti esperimenti su SoundCloud, vanno a cercarsi il consenso pubblico in questo mare magnum sonoro. Promuovendosi previo pagamento del servizio, s’intende.

Le conseguenze di queste e altre opportunità di accesso e fruizione offerte da Spotify non hanno tardato a manifestarsi. Come la crisi del supporto fisico (Vinili e CD) e quindi dei negozi di musica; il fallimento delle case discografiche, costrette a chiudere i battenti o farsi inglobare dalle poche major rimaste; il crollo dei costi di produzione, dei meccanismi di promozione e supporto all’artista; i prezzi sempre più proibitivi dei biglietti per i concerti, complici le vendite discografiche insufficienti. 

Tutto questo per restituirci la musica ‘a portata di mano‘, senza sosta e alla modica cifra di 9 euro al mese. Tenere fede unicamente alla giostra delle visualizzazioni su Spotify si è dunque rivelato tutt’altro che un buon parametro per misurare il vero talento artistico. E non solo perché oggi bastano pochi click per finire nel catalogo infinito o in qualche insospettabile playlist.

Ma anche in virtù di quelle regole di mercato che hanno finito col soppiantare l’autentica purezza dell’impegno artistico – necessario per un prodotto apprezzabile – con l’idea che un singolo brano musicale si possa realizzare in poco tempo e col minimo sforzo creativo. O che magari basti semplicemente partecipare a un talent show in prima serata per farsi notare, eludendo la prassi della vecchia gavetta. 

Tutto vero, ahinoi! Così fino alla prossima tendenza, personaggio del giorno, tormentone estivo. Sicuramente ci si vedrà in giro canticchiando un ritornello, carrello della spesa alla mano fra le corsie dei supermercati. 

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