Quando Leo Messi ha ribadito in porta, da pochi passi e di destro, il tiro di Lautaro Martinez respinto da Lloris, segnando il gol più importante della sua carriera nel modo meno iconico possibile, è parso proprio che i pianeti si stessero – finalmente – riallineando.
Messi e Maradona, entrambi con il 10 sulle spalle, entrambi mancini, entrambi capitani di una nazionale forse meno talentuosa che in altre annate, ma coriacea e tutta tesa a esaltare il proprio leader, che trascinano l’Argentina sul tetto del mondo. Ma poco dopo Mbappé – a detta di Ronaldo il Fenomeno il calciatore moderno che più gli somiglia – ha deciso che non era ancora finita.
L’epilogo, però, è stato solo rimandato ai calci di rigore. Quando Emiliano Martinez – già fenomenale con un intervento su Kolo Muani al 119° – ha recitato alla perfezione il ruolo del coprotagonista, regalando a tutti gli amanti del calcio un nuovo classico indimenticabile, nell’insolito mondiale qatarino – il primo a disputarsi a dicembre – è andato finalmente in scena “Messi e Maradona: un trono per due”.
Messi e Maradona: calcio, mistica e leggenda
Poche cose come lo sport sanno regalare racconti che trascendono quello che accade sul campo di gioco, scrivendo storie romanzesche e a volte miti e leggende. Il calcio, con il seguito popolare e passionale che si trascina dietro – ancor più nelle nazioni latine, come noi italiani ben sappiamo – riesce a unire gli aspetti più squisitamente tecnici e tattici a quelli più umani, sentimentali e, oserei dire, mistici. E da questo punto di vista, nessuna squadra incarna questa fusione come la nazionale argentina.
Una nazione sempre sull’orlo del collasso economico, percorsa da disuguaglianze feroci, dilaniata da anni di dittature che visceralmenente si attacca ai propri rappresentanti in calzoncini e maglia albiceleste per regalarsi un momento di gioia e di unità. Una nazione aggrappata alle magie di Messi e Maradona.
Una nazione unita nella gioia e nella disperazione, da una generazione all’altra, come in questo mese hanno cantato tutti insieme, tifosi e giocatori, sulle note di Muchachos:
…non te lo so spiegare perché non capirai / le finali che abbiamo perso, quanti anni ho pianto per loro / Ma è finita perché nel Maracaná / la finale con le brazucas è stata vinta ancora da papà / Ragazzi, ora siamo di nuovo emozionati / Voglio vincere il terzo, voglio essere campione del mondo…
“Muchachos”, la canzone dei mondiali argentini
La Seleccion e l’eredità di Maradona
La Seleccion si trascina dietro tutto questo sul campo, ricevendone sì una spinta incredibile, ma anche un’altrettanto incredibile pressione emotiva. Più di una volta la squadra è parsa vittima di questa altalena emotiva, soprattutto negli ultimi decenni, quando i tanti campioni che hanno indossato la camiseta della nazionale, si sono ritrovati sulle spalle anche un peso in più: l’eredità del Pibe de Oro, della Mano de D10s, Diego Armando Maradona.
Grandi giocatori come Batistuta, Mascherano, Crespo, Riquelme, Ortega, Tevez, Zanetti, Veron – solo per citarne alcuni – hanno provato a caricarsi sulle spalle la squadra e la nazione, senza riuscire a compiere l’impresa. Poi il fardello si è spostato sulle spalle di quel piccoletto con la maglia numero 10, che sembravano fatte apposta.
Messi e Maradona: uno l’immagine dell’altro, addirittura insieme in nazionale; l’uno in panchina, l’altro in campo. Uno di quei casi in cui la mistica si schianta contro la realtà, che nel 2010 aveva la forma della solidità teutonica. Quarti di finale dei Mondiali sudafricani: Germania-Argentina 4 a 0; Messi e Maradona a casa. L’uno che fa un disastro tattico, l’altro quasi non pervenuto sul campo.
Messi e Maradona, insieme, durante i Mondiali di Sudafrica 2010
Messi contro Maradona
D’altra parte, il rapporto di Messi con la nazionale non era iniziato con il piede giusto. Al suo esordio, espulso per una gomitata appena 40” dopo il suo ingresso in campo. Eppure, anche in questo, pareva che il destino lo portasse a ripercorrere le orme di Diego; anche lui in difficoltà nei suoi primi anni in albiceleste: tenuto fuori dai vittoriosi Mondiali del ’78, quelli di Mario Kempes che abbatte col fisico il calcio totale dell’Olanda di Crujiff; ma anche di Jorge Videla, il dittatore argentino che provò a ripulirsi l’immagine in mondovisione: la festa del calcio, mentre nel suo paese si compivano crimini contro l’umanità e sparivano nel nulla migliaia di desaparecidos.
Messi e Maradona: il primo espulso all’esordio, il secondo nella partita più importante del suo primo Mondiale, per un fallaccio contro il Brasile a Spagna ’82.
Lo sciagurato esordio di Messi con la Selccion
La mistica, dunque, era tutta dalla parte di Leo fin dal principio: il sinistro vellutato, il dribbling essenziale e inarrestabile, le punizioni a giro sotto l’incrocio, l’altezza, il numero sulla schiena. Messi e Maradona sembravano sovrapporsi ad ogni partita. E poi, ancora: lo sbarco in Europa con la maglia del Barcellona, i gol quasi in fotocopia, saltando avversari come birilli. Tutto, tranne la maledizione della Seleccion: i fallimenti, uno dietro l’altro, con la maglia della nazionale che perseguitano Lionel e gli sbattono in faccia un’accusa che pare corroborata dai fatti: “non hai la personalità di Diego” gli dicono. “Vinci solo a Barcellona, perché sei nella squadra più forte”.
Quei giudizi che sminuisco Messi, sempre, anche quando segna un gol stratosferico, uguale a quello di Diego contro l’Inghilterra (quello del barrillete cósmico), ma solo in una partita di Liga spagnola. Messi e Maradona, così simili e così distanti.
Messi e la maledizione albiceleste
Non bastano i gol, non bastano i trofei. Non sono sufficienti i Palloni d’oro in serie. Leo sa che senza un Mondiale non sarà mai considerato all’altezza di Maradona. E Leo quel traguardo lo sfiora, ma sulla sua strada trova di nuovo la Germania – proprio come Diego a Messico ’86: il destino pareva apparecchiato – e perde in finale, ai supplementari, dopo una prestazione a dir poco opaca.
E poi ancora: la strada sbarrata dalla Francia negli ottavi di Russia 2018, le due finali di Coppa America perse di fila contro il Cile (e in una Leo sbaglierà anche il suo rigore). Sembra non ci sia niente da fare. Messi e Maradona sembrano sovrapporsi in tutto tranne che per quell’immagine: Diego che solleva la Coppa del Mondo.
La finale di Coppa America vinta dal Cile ai rigori; quella con l’errore di Messi
Messi e Maradona, finalmente
Fino al trionfo dell’altro giorno. Finalmente Messi e Maradona uno accanto all’altro, in trionfo con la maglia biancoceleste dell’Argentina. Ma ora che la maledizione è stata sfatata e Leo ha raggiunto il meritatissimo traguardo, che rende giustizia al suo talento infinito e fa felici tutti gli amanti del calcio, è anche giusto, tra un applauso e l’altro, rileggere la storia – ormai leggenda compiuta – nella luce giusta. Messi e Maradona. Messi non è Maradona. Senza che questo indichi un primato o uno status minoritario, ma per dare a ciascuno la sua dimensione, la propria storia. Esaltanti entrambe, ma diverse, pur con tutte le similitudini che il romanzo del calcio ha regalato.
Messi e Maradona sullo striscione dei tifosi argentini: “Mi viejo me conto de Maradona…yo a mi hijo le hablare de Messi…“
Non può, d’altra parte, essere un caso il fatto che il primo successo di Leo e dell’Argentina dal lontano 1986 sia arrivato proprio quando Diego non c’era più. La Coppa America lo scorso anno, il Mondiale in questo strano dicembre calcistico.
E allora: Messi e Maradona, un trono per due. Perché nel classico natalizio che vede protagonisti Eddie Murphie e Dan Akroyd, c’è posto per entrambi sulla poltrona milionaria del broker. Eppure non potrebbero essere più diversi di così quei due. L’uno ricco e perbene, l’altro spiantato e truffaldino. L’uno cresciuto in un ambiente protetto, l’altro sopravvissuto a forza di espedienti. Due percorsi diversi che li portano anche a scontrarsi, a cercare di occupare la stessa poltrona, prima di ritrovarsi infine alleati e entrambi felici e realizzati.
Messi e Maradona, come Billy e Louis.
Una delle scene finali di “Una poltrona per due”, con il trionfo di Billy e Louis (SPOILER ALERT, se siete tra quei due o tre che non l’hanno visto.
Leo è Messi, Diego è Maradona
Messi e Maradona non potrebbero, in effetti, essere più diversi di così. Quasi un clone di Diego sul campo, estremamente diverso fuori e nella traiettoria della sua carriera. Diego sbarca a Barcellona, litiga più o meno con tutti, si ritrova con una caviglia fratturata dall’intervento killer del basco Goicoetxea e fugge a Napoli. Leo a Barcellona è a casa. Arriva che è ancora un bambino e trova l’ambiente perfetto per esprimersi. Le cure giuste. Il calcio giusto. Tira fuori tutto il suo talento e inizia l’inseguimento dell’ombra di Diego che, come quella di Peter Pan, sembrerà sempre sfuggirgli sul più bello.
Leo a Barcellona vince tutto ed è il perno fondamentale di una delle squadre più forti della storia del calcio. Diego regala le sue magie a Napoli, che pur nella centralità del calcio italiano a cavallo degli anni ’80 e ’90, e nonostante l’estro di Ferlaino che costruisce una squadra all’altezza dei suoi sogni, resta una realtà diversa da quelle delle élite del calcio.
Messi ha lasciato Barcellona per andare al Paris Saint Germain, una specie di Harlem Globetrotter del calcio moderno e squadra diretta emanazione del potere qatarino, figlia perfetta del calcio del 2000. Diego scappa da Napoli per nascondere la sua parabola declinante – ma con ancora qualche sprazzo di genio – tra l’Andalusia e il ritorno al Boca Juniors. Messi e Maradona, due traiettorie diverse.
Scampoli del Maradona andaluso
Messi è un bravo ragazzo. La faccia pulita. In campo incassa falli su falli, ma resta concentrato sul suo calcio, sulle sue magie. Diego in campo è sempre in altalena tra sbruffonaggine e rissa. Litiga, protesta, incassa e restituisce. Diego è un villain perfetto. Perennemente contro: contro il potere, contro il sistema, contro Videla, contro la FIFA.
Ce lo vedete Maradona a farsi mettere sulle spalle la veste tipica degli sceicchi – a “sporcare” la camiseta albiceleste, simbolo popolare se ce n’è uno – prima di ricevere la Coppa del Mondo? Io credo che avrebbe rifiutato, anche abbastanza sdegnatamente. Non vuole, questa, essere una critica nei confronti di Messi: diverso il calcio, diversi i tempi, diverse le persone (anche se c’è chi non sembra rendersene conto e anche dopo il trionfo mondiale, trova l’occasione per farne una polemica…).
L’ombra del D10s
Ma è proprio questo che dobbiamo ricordare: Messi e Maradona, così simili nella classe e sul campo, sono persone diverse, vissute in epoche calcistiche – e politiche e sociali – diverse. Proprio la mancanza di questo distacco nella narrazione della carriera messianica ha rischiato di schiacciare la Pulce di Rosario, condannandolo a non uscire mai dall’ombra dell’ingombrante dios. Fino, appunto, all’altra sera. Quando, finalmente, Messi si è guadagnato in maniera irrefutabile e incontestabile quell’E tra i loro due nomi. Non più Messi è Maradona o, ancora peggio, Messi virgola Maradona. Ma Messi E Maradona. Uno accanto all’altro, sul trono del calcio mondiale.
Maradona vive di eccessi, nel bene e nel male. Generoso in ogni cosa, nel suo approccio alla vita e nel calcio. Leo è più posato. Beninteso: ogni tanto si arrabbia anche lui. E ogni tanto se la sarà spassata. Ma certo siamo lontani dalla vita di eccessi che ha vissuto Maradona e che certamente ne ha accorciato la carriera. Anche qui, una grande differenza: la carriera di Leo è alle soglie dei vent’anni trascorsi a livelli assoluti. Maradona ha bruciato le tappe per arrivare sul tetto del mondo, ma altrettanto velocemente ha bruciato quelle del declino. Messi e Maradona, l’inseguimento che continua.
Così vicini, così diversi
Quella che in tanti hanno invece segnato come differenza fondamentale, non credo che sia così marcata; anche a Messi non fa difetto la leadership. Certo, la esercita a suo modo; è un leader tecnico ed è cresciuto caratterialmente nel corso della sua carriera. Ma le responsabilità non le ha mai sfuggite; a volte non le ha rette, forse, ma non è mai scappato di fronte alle sfide, nemmeno quando i critici più accanito lo attaccavano ad ogni partita appena sottotono.
Come se fosse possibile giocare da Messi e Maradona ininterrottamente per vent’anni. Entrambi, Messi e Maradona, hanno abituato a standard così elevati di classe sul campo da calcio, che non gli è mai stato concesso di essere normali. Ci è passato Diego per primo, sempre costretto a caricarsi il mondo sulle sue spalle, a inventare la giocata, a farsi amare e odiare, sempre.
A Messi non è bastato essere il più forte in campo: gli si chiedeva di essere Maradona anche fuori dallo stadio. Di esporsi. Di fare anche lui amicizia con Fidel Castro. Di tatuarsi il Che sul polpaccio. Dimenticando, appunto, che Messi e Maradona vivono due mondi diversi. E che, in ogni caso, di Diego possiamo raccontare anche il dopo carriera, mentre di Messi ne stiamo ancora cantando le gesta sul campo.
Non dev’essere stato facile per Messi essere sé stesso, circondato com’era da un chiasso mediatico che gli chiedeva di essere un altro, in tutto e per tutto, in un mondo completamente differente. Vincere tutto, giocare sempre come il migliore al mondo e allo stesso tempo dire sempre la sua, allenarsi poco, festeggiare tanto. Impossibile nel calcio ipertecnologico di oggi, ai ritmi coi quali si susseguono le partite, in stagione sempre più piene e lunghe e in un sistema fatto in modo che da un tuo gol o da un tuo errore possano dipendere movimenti di milioni di euro.
L’addio a Diego
Messi e Maradona si sono ritrovati uno affianco all’altro prima ancora dell’altra sera, anche se non di molto. Da quando Diego è uscito di scena, Messi è uscito dalla sua ombra, anche se non ce ne siamo accorti. E ha iniziato a camminargli accanto. Lo si capisce anche dalla sfrontatezza con cui Leo ha cantato in questo mese le parole di Muchachos, che raccontano di lui e Diego. Parole che può cantare solo uno che ha raggiunto una grandissima consapevolezza di sé. Di chi dopo tante recite mondiali, sa di essere arrivato alla last dance, ma sapendo che stavolta potrebbe essere davvero quella buona.
…quiero ganar la tercera, quiero ser campeón mundial/ Y al Diego en el cielo lo podemos ver / con Don Diego y con la Tota, alentándolo a Lionel!
Messi che canta “Muchachos”, cantando di Messi e Maradona…
Leo ha lasciato il Barcellona. Si è lasciato alle spalle gli insuccessi del passato con la nazionale. Si è fatto crescere la barba, per rendere il suo viso un poco meno da bambino. Ha assunto un’espressione più, matura, fatalista, distaccata. Anche cattiva. Ha iniziato a calmierare le sue energie nel corso della stagione. A spenderle solo nelle occasioni più importanti.
Ha, forse, anche imparato a non caricarsi il mondo sulla schiena e a lasciare la platea ad altri, se necessario e possibile. Come nella finale di Copa America. De Paul ha il pallone; Leo si abbassa per farselo dare, guardato a vista da almeno tre avversari. Fa un gesto con la mano, che non si riesce a capire bene, ma pare quasi stia dicendo al compagno “Non a me, lanciala là”. Palla lunga verso Di Maria che sorprende tutti e gol – che sarà quello decisivo per il trionfo argentino.
Similmente, Diego, in Argentina-Germania attira a sé tre o quattro avversari e, in un lampo e con un solo tocco, trova il varco giusto per scatenare la cavalcata vincente del compagno Burruchaga.
Il gol che decide la finale di Mexico ’86
Da Messico ’86 a Qatar ’22
Già, quella partita. Quella che fino all’altra sera segnava LA differenza tra Messi e Maradona. La finale del Mondiale di Mexico ’86, che a un certo punto sembrava – nella mistica del calcio – sovrapporsi quasi esattamente e, oserei dire, spaventosamente, a quel che accadeva in campo durante Francia-Argentina. Due a zero per la seleccion, a un passo dal trionfo. Poi la riscossa degli avversari, tutta classe e fisico, proprio mentre le forze dei giocatori argentini iniziavano a scemare…e Mbappé che confeziona la rimonta perfetta, quasi negli stessi minuti in cui Rumenigge e Voeller riacciuffavano l’albiceleste di Maradona. Per Messi e Maradona mancava solo l’atto finale: che è arrivato, ma con più fatica e in modo diverso.
Come raccontava nello studio RAI Lele Adani – che di calcio argentino ne capisce più di quasi tutti in Italia e che sicuramente è un Messiologo – i giocatori dell’Albiceleste, dopo il pari francese erano praticamente morti: calcisticamente e a livello di energie fisiche e mentali, come i compagni di Diego dopo il gol del 2 a 2 di Völler. Nel 1986 hanno resistito e non si sono arresi al fato perché sapevano di avere Diego. Quelli in campo contro la Francia si sono aggrappati a Leo. Che per poco non segnava un gol dei suoi, a un amen dalla fine, ma i guanti di Lloris gli hanno detto no. Messi e Maradona, ancora distanti un gol l’uno dall’altro.
Forse, a quel punto, solo Adani e quelli che come lui hanno sempre riconosciuto il valore di Messi a prescindere dalla vittoria del Mondiale, credevano che il fato non si sarebbe nuovamente accanito sul più bello contro Leo, come nel 2014. Ci credevano probabilmente loro, i giocatori argentini e quei due, Messi e Maradona. Perché stavolta Leo aveva già dimostrato nelle partite precedenti e nei due tempi regolamentari che non aveva nessuna intenzione di mancare l’appuntamento col destino, dispensando giocate da campione una partita dopo l’altra (e poco male se qualcuno se l’è presa con Adani per le sue telecronache colorite: davanti alla magia ci si emoziona e basta).
Il futból è gioia e Adani ce lo ricorda
Nei supplementari, poi, Messi ha provato a lasciare ad altri le luci della ribalta, proprio come Diego con Burruchaga. Un suo tocco smarcante ha messo Lautaro Martinez davanti alla porta, ma il portiere francese si è opposto. E proprio in quel momento Leo si è ribellato della maledizione, ha sfidato la mistica e la predestinazione e ha ribadito in porta la respinta di Lloris. Ancora Mbappé ha provato a riscrivere la storia e ci sono voluti i rigori per sigillare l’epilogo di questa storia.
Con un brivido che ha percorso la schiena di milioni di argentini proprio sul rigore; che Leo ha calciato spiazzando sì Lloris, ma così debolmente che quasi questo non ha avuto la possibilità di recuperare e pararlo. L’ultimo soffio di magia rimasto nello scarpino sinistro di Messi che ha spinto appena il giusto il pallone oltre la linea di porta. Messi e Maradona, a un paio di rigori uno dall’altro.
Fuori dall’ombra del D10s
Messi campione del mondo con la Seleccion: la maledizione è stata rotta o, se preferite, il destino si è compiuto. Perché quelli di Messi e Maradona sono destini che, sin dall’inizio della carriera della Pulce, sembrava già scritto dovessero sovrapporsi. E che, proprio per questo, sono stati a volte forzati a farlo nelle letture dei critici e nei sogni dei tifosi.
Eppure le differenze tra i due, come detto, ci sono sempre state. Non dev’essere stato affatto facile per Messi inseguire perennemente il fantasma di Diego, ripercorrerne le orme. Non dev’essere stato semplice sentirsi sempre paragonato al Pibe de Oro, ma… Non esserne mai reputato davvero all’altezza, come se fosse una colpa essere un’altra persona, non essere Diego in tutto e per tutto.
Non si parlava mai, in chiave argentina, di Messi e basta. Ma sempre e solo di Messi e Maradona. Fino all’altra sera, quando Leo è infine uscito dall’ombra di Diego.
“Finalmente, finalmente”
Forse solo nel momento in cui Montiel ha segnato il rigore decisivo, Messi e Maradona sono diventate due persone distinte, benché entrambi sul tetto del mondo. Il volto di Leo negli ultimi minuti dei tempi regolamentari raccontava la voglia che la partita finisse in fretta, che il fischio dell’arbitro Marciniak segnasse la sua liberazione e il trionfo argentino. Quella nei supplementari, dopo il suo gol, mostrava una scarica più liberatoria che festante. E al fischio finale il suo volto era più quello di chi si è appena tolto un enorme peso, che quello di chi è euforico.
“Finalmente” ha ripetuto più volte a chi lo abbracciava, come Javier Zanetti, sceso in campo a festeggiare insieme a tante vecchie glorie argentine che avevano vissuto sulla loro pelle tante delusioni e sognavano da tempo il riscatto.
Dall’ossessione al sogno realizzato
Il momento più toccante, più emozionante, è stato quando Messi è sfilato davanti alla coppa. Ha appena ricevuto il premio come miglior giocatore del Mondiale. Percorre il palco della premiazione per sistemarsi a favore dei fotografi per la foto di rito. Passa davanti alla coppa. La guarda. Rallenta, si avvicina. La accarezza delicatamente e la bacia e sembra che lo stia facendo con la testa di un bambino. Come un padre che si complimenta con il figlio per un bel gol segnato in cortile e gli sussurra “bravo”; è stato come se Leo stesse accarezzando la testa di sé stesso bambino: il sogno si è realizzato.
Probabilmente solo una volta che il mondo ha salutato Diego, dopo aver vinto la Coppa America, ammesso a sé stesso e agli altri che il tramonto della sua carriera di inimitabile campione si avvicinava, per Leo quella coppa è tornata ad essere un sogno, che per troppo tempo era stato un’ossessione. E tra sogno ed ossessione, come insegnò Mourinho proprio contro il Barcellona di Messi, il primo vincerà sempre. Il sogno si è realizzato, alla fine di una partita che è già parte dell’epica calcistica.
Una partita che è già un classico
Messi e Maradona. Ma anche Mbappé, che per poco non la vinceva quasi da solo. Deschamps, che forse pensava di vincerla per manifesta superiorità, a due rigori da uno storico bis. Scaloni, diventato CT argentino quasi per caso ed ora già il più vincente della storia; il Fideo Di Maria, che se fosse finita al 90° ci ricorderemmo molto di più della sua stratosferica partita.
La partita del Dibu Martinez, irriverente come il cartone da cui prende il soprannome e decisivo, che sul tetto del mondo c’è arrivato dopo una carriera passata all’ombra degli altri. Il giovane migliore del Mondiale, Enzo Fernandez, e quello andato a centimetri dal diventare eroe per caso, a 18” dallo scadere, Kolo Muani. Ma anche il Kun Agüero, che con Messi ha condiviso trionfi e delusioni, da amico, compagno di squadra e compagno di stanza in tutti i ritiri passati assieme; e dopo la premiazione se lo carica sulle spalle per la parata trionfale. O Otamendi, El General, che c’è sempre stato e ha visto Messi in lacrime e in trionfo.
Tutti coprotagonisti di un film che è già un classico del Natale 2022, come l’immortale Una poltrona per due. Una partita che qualcuno ha già definito il match del secolo.
Argentina-Francia è già un classico
Messi e Maradona: “Un trono per due”
Un trono per due, dunque. Messi e Maradona. Finalmente uno accanto all’altro dopo che per l’intera carriera del 10 rosarino, critici e tifosi – più o meno inconsciamente – li hanno messi, di fatto, uno contro l’altro, sovrapponendoli ben oltre il dovuto e il logico. Proprio come i fratelli Duke di Una poltrona per due, che scommettono e giocano con il destino dei due protagonisti. L’uno che non sarà mai all’altezza dell’altro. Oppure uno che vale l’altro. L’uno quasi nobile e privilegiato, che ha più di quel che merita; l’altro nato nella polvere e per questo truffaldino, che solo con per un gioco del destino baro può raggiungere il successo.
Eddie e Dan, che si incontrano e scontrano e, alla fine, alleati, raggiungono insieme lo stesso successo. Alla faccia di chi li voleva mettere contro. E allora, finalmente, sul tetto del mondo, un trono per due: Messi e Maradona. Per il delirio di un popolo intero.
Le scene quasi irreali dell’arrivo della nazionale albiceleste all’alba a Buenos Aires
Un destino compiuto e un’immagine, quella di Leo che stringe la coppa alzando le braccia al cielo, la maglietta libera dalla tunica nera con il dieci sulle spalle, circondato da compagni, amici, famigliari – da un popolo intero, quasi tutto con la sua maglietta addosso – che stavolta sì, possiamo sovrapporre alla gioia di Maradona, e che fa felici tutti gli amanti del calcio. Giusto così: Messi e Maradona, accanto, sul trono del mondo del calcio.