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“Non vi era alcuna manifestazione di disgusto, o di pietà, o di indignazione, o di mestizia… Fu uno spettacolo brutto, sporco, ributtante…” Lettere dall’Italia, Charles Dickens
8 marzo 1845, Charles Dickens è in tour per l’Italia quando assiste alle esecuzioni del boia di Roma, Giambattista Bugatti, passato alla storia come Mastro Titta. Solitamente durante il periodo pasquale nessuno veniva giustiziato, ma il boia fece un’eccezione quel giorno, visto la gravità del reato commesso dal condannato. Seguì, derubò e uccise una contessa bavarese in pellegrinaggio nella Città Eterna, lungo la via Cassia, presso la Tomba di Nerone. Ciò che colpì l’autore non era tanto l’esecuzione in sé, ma l’entusiasmo del popolo che assisteva a quel macabro momento, davanti al patibolo, completamente indifferente della sofferenza altrui.
Chi era Mastro Titta il Boia di Roma
Mastro Titta è anche conosciuto come Er Boja de Roma. Nasce a Senigallia, il 6 marzo 1779, la sua figura è entrata nell’immaginario collettivo e nella letteratura del XIX secolo, fino ad approdare nelle sale cinematografiche. Un personaggio legato al patibolo, un carnefice agli ordini del Papa durante lo Stato Pontificio, che eseguì 514 condanne a morte. Iniziò all’età di 17 anni, nel marzo del 1796, e terminò la sua carriera di boia nel 1864. 68 anni al servizio di sei papi, da Pio VI a Pio IX. Una media di sette condanne all’anno. Operò anche sotto il dominio francese, eseguendo le condanne a morte di 55 persone.

I casi d’imputazione erano variegati. La pena di morte era prevista per i reati di cospirazione, criminalità organizzata, rapina a mano armata e omicidio. Per i crimini minori, Mastro Titta, utilizzava un pugnale per mutilare i malcapitati, tagliava un orecchio, asportava un occhio, o il naso, o la mano sinistra, e in caso di recidività anche la mano destra.
Per i reati più gravi invece, giustiziava i condannati mediante mazzolamento, impiccagione o decapitazione con la scure. L’invenzione della ghigliottina in Francia, facilitò molto il suo lavoro di boia. Mostrava la testa mozzata del condannato al popolo e la infilzava su una picca.

Se c’erano delle aggravanti, la legge pontificia, prevedeva che il boia infierisse sui corpi dei condannati, squartandoli ed esponendo gli arti mutilati sul patibolo.
Prima di ogni esecuzione, Mastro Titta si confessava, e dopo aver ricevuto la comunione, indossava il suo mantello e si incamminava verso il patibolo. Il mantello che indossava durante le esecuzioni è conservato presso il Museo Criminologico di Roma.

“Il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano Marco Rossi, che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità.”
Quando non lavorava come boia, si occupava della vendita di ombrelli. Viveva nella Città del Vaticano, sulla la riva del Tevere, nel rione Borgo, al numero civico 2 di Vicolo del Campanile. Tutti i carnefici dei papi vivevano lì.

A loro era vietato l’ingresso nel centro della città, perché il papa aveva paura che qualcuno potesse fargli del male. “Boia nun passa ponte” si diceva a Roma, tranne quando doveva avvenire un esecuzione, che normalmente aveva luogo sull’altra sponda del fiume. Per questo quando si diceva “Mastro Titta passa ponte” significava che, prima di sera, la testa di qualcuno sarebbe rotolata in un paniere.
Mastro Titta mazzolava, impiccava, squartava o decapitava i condannati con molta abilità. Nelle sue annotazioni, descrive l’esordio della sua carriera di boia:
“Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati.”
“Il condannato si chiamava Giacomo Dell’Ascensione era costui un pericolosissimo scassatore di botteghe, che dedicandosi a tal pericoloso mestiere, aveva saputo sottrarsi sempre alle indagini della punitiva giustizia e menar vita allegra, gioconda, lietissima. Ma dàlli e dàlli finì col cadere in una trappola tesagli con arte sottilissima. Colto quasi in flagrante, tentò sulle prime di far resistenza, ma poi mise senno, si lasciò arrestare e condurre alle carceri, ove confessò tutti i suoi delitti.
Condannato, non voleva saperne di subir la pena. Diceva che i suoi delitti non erano passibili di morte, che la sentenza era un abbominio. E ci volle del bello e del buono per metterlo legato sulla carretta. Mentre stavo per farlo salire sulla scala, mi diede un così terribile spintone che per poco non vacillai. Ma questo tratto villano mi inasprì e senza ulteriori complimenti, passatagli la corda al collo, lo mandai all’altro mondo, dove avrà portate le sue lagnanze contro la giustizia di Roma.”
Lord Byron, poeta inglese, rimase colpito dalla crudezza delle esecuzioni a cui assistì durante il suo viaggio a Roma. Nel 1813 scrive al suo amico ed editore John Murray:
“La cerimonia, – compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell’ascia, lo schizzo del sangue e l’apparenza spettrale delle teste esposte – è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi.”
All’età di 85 anni lascia il posto al suo allievo Vincenzo Balducci. Pio IX lo premia con la concessione di una pensione di 30 scudi al mese. Si dedicò alla formazione di nuovi boia fino alla sua morte, avvenuta il 18 luglio 1869. Leggenda vuole che il suo fantasma si aggiri presso il ponte Sant’Angelo, avvolto nel suo mantello alle prime luci dell’alba, offrendo tabacco ai passanti.
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