Cari amici di WhereMagicHappens, ho avuto il piacere di scambiare quattro chiacchere con Alessio De Santa, personaggio social poliedrico e senza dubbio carismatico. La sue storie riusciranno davvero a catturare la vostra attenzione! Scopriamo qualcosa in più nella nostra intervista.
Alessio, ho avuto qualche difficoltà a definirti: content creator, sceneggiatore, storyteller, colorista, fumettista. Tu come ti definiresti?
Ho sempre avuto anch’io questo problema (ride, Ndr). Diciamo che al momento sono un content creator, ma visto come viene usato oggi il termine, aggiungo che creo da prima che i contenuti venissero usati soltanto per i social. Ho fatto tante cose tra cui fumetti e simili, quindi a volte sono contenuti ‘stampati’, a volte sono ‘social’ e mi piace così.
Hai una laurea in comunicazione, un diploma in ‘Book publishing strategies’ a Yale, un diploma alla scuola di fumetto di Milano. Com’è nata la scelta di indirizzarti verso questi studi?
Il mio percorso è stato abbastanza particolare: al liceo disegnavo, scrivevo, inventavo storie, quindi non appena ho avuto la possibilità di scegliere cosa fare della mia vita, con grande disappunto dei miei genitori ho deciso di lavorare come fumettista invece di iscrivermi all’università. A 22 anni già lavoravo per De Agostini e contemporaneamente frequentavo una scuola professionale.
Dopo un po’ mi è venuta la voglia di tornare a studiare. Mi sono laureato nel 2010, ho trovato un lavoro ‘vero’, poiché ero un po’ stufo del lavoro da freelance nell’editoria.
Ho iniziato poi a scrivere i miei libri e da lì è partita un’altra passione che è stata quella dei social, sui quali sono arrivato tardissimo. In realtà ho avuto un primo slancio negli anni 2000 quando sono stato uno dei primi blogger d’Italia, nel senso che eravamo in pochissimi all’epoca. Avevo un blog molto informale, scrivevo riflessioni sulla vita di un 20enne. Da lì poi ho mollato un po’ i social perché stavano prendendo una piega che a me non piaceva molto, con tutto quel lifestyle. A me piace la cultura, imparare cose nuove, quindi non mi interessava partecipare a quella tipologia di cose lì.
Nel gennaio 2020 hai lanciato il sito ‘Ilovestorytelling’, primo approccio al rendere usufruibile la tua passione dello storytelling. Com’è nata l’idea?

È nata dal fatto che avevo un sacco di amici sceneggiatori che scrivevano delle bellissime recensioni su Facebook. Pensavo che sarebbe stato bello prenderle e spiegarle alla gente ‘normale’, mostrando loro come vengono fatte le serie tv, i film ecc. quindi ho pensato di metter su una specie di rivista online.
La mia idea era semplicemente di gestire questo il sito ‘Ilovestorytelling‘ lavorando sulle idee e sui contenuti dei miei amici. In realtà, con il lockdown ho iniziato a promuovere la rivista sui social e i social mi sono esplosi in mano. La rivista invece non partiva perché con il lockdown gli sceneggiatori hanno avuto tantissima richiesta mediatica, quindi non hanno avuto più tempo di scrivere belle recensioni su Facebook e mi sono ritrovato senza troppi contenuti. Alla fine ho cambiato molto in fretta la strategia e mi sono spinto sui social.
Lo storytelling è fondamentale tanto per cinema e serie tv quanto per la scrittura. Vale anche per la creazione dei contenuti? Quanto studio c’è dietro?
Si, c’è tantissimo storytelling in quello che faccio, anzi, penso che il 90% del successo di un video sia nella capacità di raccontare una storia all’interno di esso, di agganciare e darti l’attesa di qualcosa che arriva alla fine. Soprattutto nei 30-40 secondi di Tik Tok.
Io poi sono maniacale nella creazione, tanto da lavorare 4/5 ore su 30 secondi di video, perché ci tengo tantissimo al fact-checking. Internet è strapiena di gente che cambia volutamente i fatti o li riporta volutamente a caso, io invece tendo a ricercare molto.
Tendenzialmente parlo di cinema, ma la gente non mi ricorda come ‘quello del cinema’ perché parlo anche di tante altre cose. Prendo l’argomento da punti di vista diversi, parlo della televisione, della società e il vero valore aggiunto è la mia storia personale. Cerco sempre di dare una sfumatura che riguardi il mio percorso personale, facendo domande, insinuando dubbi e utilizzando tanta ironia ed auto-ironia.
Da febbraio 2020 sei su Tik Tok e sei stato definito il “primo tiktoker italiano a parlare di cinema”. Come si vive questo primato?
Quando ho cominciato a fare questa cosa è stato di nascosto dai miei amici perché mi vergognavo come un ladro. Parliamo di gennaio/febbraio 2019, Tik Tok era davvero un’App per i balletti, eravamo in 4 a fare divulgazione (un prof d’inglese, due ragazzi che facevano attualità ed io) ed è stato un salto nel buio cercare un modo per parlare di cose su un’app che non era progettata per quello.
L’app poi è cambiata tantissimo, è cambiato il suo pubblico, sono cambiati gli strumenti che ti mette a disposizione. Ad esempio, mi hanno incluso nei creators di Tik Tok, quindi ho tutta una serie di agevolazioni da parte della piattaforma. La divulgazione è una scommessa su cui Tik Tok ha investito tanto, cosa che non ho visto su Instagram.
Quanto è importante per un content creator la visualizzazione? Che valore si dà al numero puro e semplice?
Bella domanda. Potrei rispondere dicendo che non rincorro la visualizzazione di per sé. Ci sono dei video che faccio sapendo in partenza che non funzioneranno, in cui tuttavia parlo di cose in cui credo tantissimo. Eppure ultimamente sto avendo tante soddisfazioni anche in quel caso, perché il mio pubblico si fida e mi segue in posti dove normalmente non andrebbe. Ad esempio, ho raggiunto 200mila visualizzazioni con un video sull’uso diegetico ed extradiegetico della musica nel cinema! Cioè, è un pippone da semiologi, capisci? Eppure, se alla gente lo spieghi in una maniera coinvolgente si appassiona. Quindi per me la visualizzazione non è un fine di per sé, è la temperatura di quanto io stia riuscendo a parlare al mio pubblico, e questa è sempre stata la mia guida.
Con ‘Squid game’, sapevo che al pubblico la serie piaceva, tanta gente lo stava guardando e ho voluto portare dei contenuti non proprio banalissimi, ricercati e che mi interessassero. Ci sono delle volte che faccio delle cose un po’ più ‘per il pubblico’, delle volte in cui le faccio un po’ più ‘per me’ e delle volte che proprio me ne frego di tutto e faccio una roba che è completamente fuori dal panorama.
Spesso alcuni contenuti possono influire positivamente o negativamente sul numero dei follower, che diventa una sorta di ‘termometro’. Prendiamo ad esempio la tua storia sulle scene di sesso orale nei film, quando hai detto di “aver perso dei follower” in seguito…
Allora, c’è da premettere una cosa: su tik tok a volte non posso approfondire un argomento come vorrei e non c’è tutta la dialettica che potrei avere su Instagram, quindi cerco di richiamare la gente lì (su Instagram-Ndr) per continuare un discorso.
Quella volta, nello specifico, mi erano arrivate quasi 15mila persone, tra cui anche molto giovani, target a cui non ambisco. Ho perso 300 follower in un giorno perché ho esplicitamente detto ‘pompini’ in una storia. Ovviamente, un pubblico giovane, magari con la mamma di fianco, sentendo “pompini” avrà detto “no, questo qui non lo seguo più“. Diciamo che però è stato un rischio calcolato, l’ho fatto apposta e a me andava bene così. Io cerco sempre inclusività verso chi è giovane (a patto che parli la mia lingua) ma allo stesso tempo cerco di dare anche un po’ di ciccia a chi è più grande.
Sesso, femminismo, politically correct, Lgbtq+, Gender bias. Elementi della nostra società che ritroviamo anche nel cinema. Secondo te a che punto siamo con questi argomenti sul grande e piccolo schermo?
La discussione sui ‘pompini’ (sul profilo Instagram di Alessio -Ndr) non è partita da me ma da Diana Del Bufalo e a me ha incuriosito molto, perciò ho iniziato a scavare e ricercare su questo argomento, vista la presenza di dati e ricerche. Ho fatto lo stesso per l’omosessualità: fino ad una decina di anni fa non era rappresentata nel cinema e questo di per sè è strano, perché il 3% della popolazione è omosessuale. Il fatto che non entri nelle nostre storie è un po’ come evitare di dire che qualcosa esista solo perché non sapremmo come trattarla.
Per me è veramente importante parlare di questi temi: supporto i movimenti LGBTQ+, il femminismo, ma non è solo una questione politica, è anche una questione di sapere a che punto siamo della storia che raccontiamo di noi stessi.
Nelle tue vesti di scrittore hai pubblicato due graphic novel: ‘La principessa che amava i film horror’ e ‘The money man, la vera storia del fratello di Walt Disney. Di cosa parlano e come è nata l’idea di scriverle?

Ho scritto prima ‘La principessa che amava i film horror’ e l’ho anche disegnato. Si tratta di una serie di storie che avevo nel cassetto da dieci anni, nate come degli esperimenti letterari sul mio blog. Ho pensato che avrebbero potuto essere ‘vendibili’ e c’ho visto lungo: le vendite sono andate abbastanza bene e il libro ci ha dato parecchia visibilità e grande soddisfazione.
In brevissimo, si tratta di otto storie di principesse molto particolari, nelle quali abbiamo cercato di rompere lo schema classico della fiaba e della figura della principessa, dell’amore e delle sue avventure, prendendo elementi classici per poi stravolgerli.
Invece, ‘The money man, la vera storia del fratello di Walt Disney’ è nato da una passione che avevo da tanto. All’interno dell’accademia Disney c’era una bellissima biblioteca piena di volumi e biografie varie. Nel tempo libero ho iniziato a sfogliare questi libri per approfondire le ricerche e capire chi fosse Walt Disney. Con grande sorpresa ho scoperto che il vero imprenditore è stato suo fratello Roy. Walt era l’anima creativa dell’azienda ma non quello che ne gestiva soldi e personale.
Il libro parla proprio del rapporto tra le due anime, quella creativa e quella di business, ed è qualcosa che ho sempre sentito anche dentro di me. Vengo da una famiglia di tre generazioni di imprenditori e, avendo avuto un’anima artistica fin da bambino, ho dovuto far convivere l’eredità imprenditoriale e lo slancio artistico nel disegnare e scrivere, cosa che per me è stata difficilissima. Di conseguenza, studiare la storia dei Disney è stato in qualche modo studiare anche la mia. Il libro in parte potremmo considerarlo la mia autobiografia.
Chi vince in questa convivenza? Ti senti più Walt o più Roy?
Direi che vado a giorni alterni. Walt era uno che non guardava in faccia a nessuno, io sono molto più costante, diligente nelle cose che faccio, ma sono anche uno che osa tanto nei contenuti.
Alessio, tramite i social hai mai ricevuto domande curiose, strane, imbarazzanti da parte dei tuoi follower?
Stavo pensando che quelle imbarazzanti sono arrivate dai miei amici (ride-ndr.). Devo dire che ho investito tantissimo tempo sulla formazione di una community che amasse la divulgazione del sapere e adorasse la discussione su vari argomenti. Ho la fortuna di avere una community molto propositiva.
Voglio rivelare che ho avuto un solo hater, al quale ho anche scritto! Lui mi accusava di fare cose divulgative, ho provato a spiegargli il perché facessi certe scelte che lui continuava a bocciare. L’ho anche invitato a smettere di seguirmi e seguire altri profili che avrebbero fatto più al caso suo, altrimenti avrei dovuto bloccarlo e sarebbe stato il primo della mia vita!
Quali sono i tuoi obiettivi a breve e a lungo termine? Hai un sogno nel cassetto? So che uno già lo hai realizzato tramite la partecipazione al Tedx Pavia…
Mamma mia che soddisfazione il Tedx! Una parte del mio sogno è proprio diventare un divulgatore. Mi piacerebbe che mi invitassero più spesso (come in parte sta già accadendo) per eventi, aziende, master, per parlare di argomenti che mi stanno a cuore, è il sogno della mia vita. Nel contempo spero di aumentare la redditività della mia attività. Dal lavoro di fumettista ho imparato che quando fai grandi sforzi e non hai nessun ritorno economico, dopo un po’ molli, perché per quanto tu sia imbevuto di idealismo e buona volontà, se devi cambiare il pc devi avere i soldi.
Poi adesso vorrei anche…Dai no, mi sono imposto di non dire nulla per il momento, che se anticipo troppo le cose poi magari succede che mi richiede più tempo del previsto e il pubblico se l’aspetta prima…
Dai, dacci giusto una piccola anticipazione allora…
Diciamo che sto studiando alcune cose per le live. Durante il lockdown ne facevo 3 a settimana, si era creata una community bellissima. Adesso che lavoro full time non riesco a creare contenuti e fare live, così ho dovuto fare la scelta soffertissima di mollarle. E’ una cosa a cui vorrei tornare, fatta in un’altra maniera, elaborata. È una cosa che mi prenderà un po’ di tempo ma ci tengo tantissimo.
Abbiamo citato il tuo Tedx, ‘Le storie nell’epoca della complessità’, che ci permette di chiudere questa nostra intervista riportandoci al discorso iniziale sulle storie e lo storytelling. Un discorso sulla potenza delle storie, sulla capacità che hanno di influenzare, in un senso o nell’altro, la nostra realtà. Storie che adeguiamo alla realtà e che contengono parte di noi stessi. Vorrei quindi chiudere con un pensiero che mi ha ispirato, seguendo il tuo Tedx. Qualcuno diceva che siamo fatti della stessa materia di cui son fatti i sogni. Io direi, e dimmi se sei d’accordo, che siam fatti della stessa materia di cui son fatte le storie…
E non sono forse gli stessi sogni ad esser delle storie, e tutto alla fine torna? La struttura dei sogni è la struttura della nostra testa, che è fatta di storie. Siamo fatti di sogni perché i sogni sono fatti di storie, quindi assolutamente si, per me è così. E’ una delle cose di cui mi piace parlare, perché la gente non si accorge di quanto noi siamo le storie che ci raccontiamo. Parlare di queste cose è il motivo che mi fa alzare la mattina.
Guarda l’ intera intervista: