Un film che ha poco da spartire con il cinema morettiano
Dopo una deludente esperienza al festival di Cannes, Tre Piani (il nuovo film di Nanni Moretti) è arrivato nelle sale dei cinema italiani a Settembre. Tratto dall’omonimo romanzo di successo firmato da Eshkol Nevo, l’ultima opera di questo ‘mostro sacro’ del cinema italiano risulta però piuttosto banale e anonima, tanto da deludere i critici e persino numerosi fan di Moretti.
Nella sua ultima opera, il regista porta la vicenda raccontata dallo scrittore israeliano Eshkol Nevo in Italia, a Roma. Qui, nel quartiere Prati, sorge il condominio di tre piani dove si consumano i destini di una coppia di giudici (interpretati dallo stesso Moretti e da Margherita Buy) delusi dal figlio che, ubriaco, investe una donna uccidendola; un quarantenne (Riccardo Scamarcio) che, morso dal dubbio che sua figlia possa aver subito violenza sessuale, finisce per avere una relazione con una minorenne, e una giovane donna (Alba Rohrwacher) che, logorata dall’assenza del marito, finisce per sviluppare un disturbo maniaco-depressivo.
Sin dalle prime scene, si ha immediatamente la sensazione che la trama risulti troppo convenzionale per essere trasposta degnamente nella filmografia di Moretti. Il ritmo lento e senza scosse del racconto viene trasposto senza ingegno nel film, finendo per appiattire tutta la vicenda, rendendola noiosa e bidimensionale, senza arte né parte.
I personaggi del film, dal primo all’ultimo, risultano poco credibili, chiusi in ruoli che lasciano poco spazio all’esplorazione dei sentimenti, all’introspezione e all’autoironia. E poi, che dire del ritratto che Moretti fa dei ragazzi presenti nel film? Le figure di quelli che dovrebbero essere esponenti della generazione Z risultano assolutamente false e fuori contesto: i ragazzi strimpellano il basso, vestono come dei settantottini, si sbronzano e picchiano i genitori; mentre le adolescenti sono unicamente ossessionate dalla scoperta del sesso. Che ne è dell’attualità? Perché non c’è traccia dei gusti che caratterizzano le nuove generazioni e dei temi che le appassionano? Dov’è finito il fiuto dell’intellettuale che, con “Palombella Rossa”, interpretava e anticipava le svolte della società?
E che ne è stata dell’ironia morettiana? Il regista romano, infatti, che della risata a denti stretti aveva fatto una cifra stilistica del suo cinema, non riesce più a ridere delle brutture del mondo, tanto meno di se stesso. Si prende terribilmente sul serio, rinchiuso in pessimismo cosmico che filtra qualsiasi contatto con l’esterno. L’unico momento di respiro e spensieratezza alla “Caro Diario” che ci concede è la scena del tango Illegal che per inciso, viene presentato come il trend del momento, ma è ormai passato di moda da cinque o sei anni. Insomma, ci ha provato.

Quando anche la colonna sonora non aiuta
Nanni Moretti ha sempre fatto nei suoi film un uso mirato della musica: sin dagli esordi, tutto il suo cinema è sempre stato caratterizzato dall’utilizzo, nei momenti più emozionanti del film, di canzoni pop della tradizione italiana, spesso inaspettate e volutamente contrastanti rispetto alla scena, oppure musica meno nota e d’elite (particolarmente adatta ad amplificare e interpretare la portata dei sentimenti analizzati dal cinema morettiano). Eppure, in questo film, manca anche questo aspetto: la colonna sonora firmata da Franco Piersanti diviene, per quanto gradevole, un mero accompagnamento musicale e non aggiunge nulla.
Tutto un altro approccio, quindi, rispetto a quello degli esordi: ad esempio, in una scena centrale di “Bianca”, film del 1984 nel quale fa il suo esordio il mitico personaggio misantropo Michele Apicella, Moretti sceglie di utilizzare la canzone “Insieme a te non ci sto più” interpretata da Caterina Caselli, il cui testo è stato scritto da Paolo Conte.
Le parole di questa canzone non sono casuali, ma adatte a questa scena: nel brano si parla di abbandono e proprio la scelta del rifugio in una reclusione ancora maggiore, è quella che il protagonista del film si appresta a compiere, addossandosi la colpa dei delitti (probabilmente non commessi da lui) per ritirarsi, sconfitto, da un mondo troppo volgare, che non riesce a modellare ed incasellare nei suoi schemi mentali, e dalle relazioni umane e amorose, che si rende conto resteranno per sempre per lui inconoscibili.
Già in questo film, quindi è evidente la volontà di Moretti di colpire lo spettatore anche attraverso le colonne sonore, che divengono nel suo cinema non solo accompagnamento musicale, ma commento e chiave interpretativa: una “canzonetta” anni ‘60 come quella appena citata, se ascoltata bene e collocata nel contesto filmico, si rivela fondante per comprendere il significato del film.

Altro esempio è sicuramente un altro celebre film di Nanni Moretti, “La messa è finita“, del 1985. In quest’opera, l’alter-ego del misantropo Moretti escogita un’altra via di fuga dal mondo dei sentimenti che lo attrae, ma del quale non conosce la chiave: invece del carcere a vita come in “Bianca”, qui la strada scelta è il sacerdozio ed il voto di castità. La canzone simbolo arriva in un momento intenso del film: il padre e la madre del giovane prete si separano, mentre il protagonista vorrebbe intorno un mondo di certezze e stabilità emotive.
La causa della separazione è proprio un nuovo amore del padre, che vorrebbe comunicare alla moglie ed ai figli (in particolare al figlio prete) l’emozione che ha ritrovato nell’innamoramento. Quindi scrive una lettera nella quale spiega le cause della separazione e, mentre la sorella legge ad alta voce la lettera del padre, il protagonista trova un espediente per non sentire: alza e abbassa il volume di una vecchia radio per coprire le parole più imbarazzanti scritte dal padre, mentre la radio sta trasmettendo casualmente la canzone apparentemente più incongrua per quel momento,”Sei bellissima” di Loredana Bertè. Una canzone che, non a caso, parla proprio di un amore totale, del desiderio di possesso e del fallimento.
E come non ricordare, poi, il leggendario episodio “Roma” in “Caro Diario”? Questo film, che ottenne il premio alla regia a Cannes nel ’94: qui è registrato il girovagare del regista per le strade della capitale a bordo della sua famosa Vespa: senza dubbio un’icona del cinema morettiano. Questo girovagare, alla fine porta Nanni Moretti (questa volta nei panni di sé stesso) a Nuova Ostia, sopra gli squallidi prati nei quali ha trovato la sua tragica morte il poeta ed intellettuale Pier Paolo Pasolini. Questo simbolico viaggio finale, metafora delle contraddizioni della capitale, è accompagnato da uno dei momenti più lirici di un’opera famosa tra gli appassionati di jazz e di musica moderna: il celebre “Köln Concert” di Keith Jarrett.
Da cinema d’avanguardia, a cinema invecchiato male
In conclusione, diciamocelo pure: “Tre piani” è un film vecchio perché sembra essere invecchiato lo sguardo (e il cinema) di Nanni Moretti. Nelle intenzioni del regista di “Bianca”, “Caro Diario” e “Aprile”, dovesse esserci un ritorno al minimalismo de “La stanza del figlio” è abbastanza chiaro, ma quello che invece trapela dalla sua cinepresa finisce per essere un melodramma piccolo borghese mascherato da thriller, una tragedia senza catarsi, un film sul rapporto genitori-figli che non lascia nulla e non fa neppure sorridere amaramente. Qualcosa che vorrebbe rievocare l’atmosfera intensa del romanzo, ma resta tristemente in superficie, ben lontano dalla genialità del “classico” cinema morettiano.