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Noi italiani non sappiamo fare horror
Ricordate le 33 regole per sopravvivere a Zombieland? Una delle particolarità più apprezzate dal pubblico del film ‘Benvenuti a Zombieland’ di Ruben Fleischer è stata sicuramente la lista di regole per sopravvivere ad un attacco zombie. Ideata dal protagonista Columbus (Jesse Eisenberg) e destinata ai compagni di avventura, oltre che a tutti noi spettatori.
Il nuovo film Netflix targato De Feo e Strippoli ‘A classic horror story’ ha portato con sé (come ogni horror italiano che si rispetti) una buona dose di polemiche e critiche nei confronti di un genere che sembra non riuscire mai ad adattarsi al cinema del Bel Paese.
Così, nel tentativo di prevenire ulteriori recensioni ‘scontate’ e solite frasi qualunquiste, mi sono chiesto: quali sono le regole per sopravvivere ad una classic horror story? Cosa dobbiamo sempre (e dico sempre) accettare e tollerare prima di premere il tasto play? Vediamo come evitare di cadere nell’ennesima polemica sterile sui cliché del genere.
Numero 1: C’era una casa molto carina…

Che ci piaccia o no, l’horror moderno è pesantemente influenzato dalla tradizionale presenza di segreti, oscuri e terribili, nascosti dietro una facciata di normalità. Non sono vecchi castelli o antichi cimiteri a custodirli, ma fattorie, case e città. Anche in ‘A classic horror story’ ritroviamo la solita casa di legno abbandonata e fatiscente in mezzo alla radura.
Ed è un elemento che inevitabilmente attrae, ci seduce al punto che vederlo e rivederlo riproposto non ci disturba, anzi, ci è familiare, vogliamo averne di più. Che poi, immaginate come sarebbe se non ci fosse la casa di turno? Sarebbe un po’ come chiudere quell’immancabile specchio nel bagno sopra il lavandino, e non vedersi apparire alcun mostro o entità sovrannaturale. Che delusione!
La vecchia fattoria di ‘Non aprite quella porta’, la casa giapponese nei sobborghi di ‘The Grudge’. Perfino una videocassetta, in ‘The Ring’. Il male contagioso si è diffuso nelle nostre città, grandi e piccole, nelle nostre case. E questo lo rende ancor più pauroso, no?
Da Kill Creek, di Scott Thomas
Numero 2: Dimmi chi sei, ti dirò che fine farai

“Questo qui è il primo a morire!”. Quanto ci fa sentire dei veri intenditori pronunciare questa sentenza mentre guardiamo il film di turno in compagnia. Soprattutto quando puntualmente le successive scene non ci smentiscono. Regola fondamentale degli horror: nei primi 10 minuti già si capisce chi sopravvivrà e chi farà invece una brutta fine. Il personaggio arrogante, superficiale, presuntuoso muore al 100%.
La ragazza sexy e senza cervello finisce per inciampare durante la sua scoordinata fuga per la salvezza (che non ci sarà). Quello simpatico, un po’nerd, ingenuo o strafatto, ha il 50% di possibilità di salvarsi, dando in tutti i casi un aiuto fondamentale a chi arriva fino alla fine. Questo è altrettanto individuabile da subito: è il tipico personaggio razionale, cauto, riflessivo, equilibrato e altruista.
Numero 3: Aprite quella porta!
Del resto, se nessuno la aprisse, finirebbe tutto in un attimo. Il richiamo al film sul massacro texano e l’allegra famigliola psicopatica di ‘Leather face’ c’è anche nel nuovo horror italiano, e si vede. Questa regola fondamentale vale per ogni pellicola, e poco cambia che la povera e indifesa protagonista di turno decida di varcare un’inquietante porta misteriosa. Per di più da sola, e senza troppi ripensamenti. Elementi così tipici ci saranno sempre, facciamoci l’abitudine. Che poi non è così male stare lì davanti allo schermo e urlare quel “ma dai ma cosa fai? Ma chi è che farebbe mai una cosa del genere?”
Numero 4: Di-vi-dia-mo-ci!

È sempre quella la parola magica, quella genialata che deve scombinare le carte e far passare il gruppo da un’agevole situazione di ‘tutti contro uno’ ad un lento massacro uno per volta. In ogni horror dobbiamo arrenderci a gente che si separa dal gruppo quando non dovrebbe, che urla quando ci sarebbe da correre e corre quando ci sarebbe da urlare, a cui puntualmente scapperà da pisciare e per farla percorrerà prima svariati chilometri in un bosco di notte.
A prender la parola sarà sempre l’idiota di turno, su cui inevitabilmente si abbatterà il sanguinoso processo di selezione naturale. In effetti quel ‘Resta qui’, o quel ‘fai attenzione, non andare’ detto prima di entrare in quel luogo buio e chiaramente pericoloso ha lo stesso potere persuasivo di un ‘mi raccomando non bere troppo’ detto ad uno che sta andando ad un freebar.
Ho sentito un rumore, resta qui, vado a vedere
Classica citazione da film horror
Numero 5: Le telefonate non allungano la vita
Conosciuta anche come ‘Non c’è segnale’, ‘Maledetto telefono’ o ‘Linea di m****’. Ovunque voi siate, qualunque cosa stia succedendo, è inutile: il segnale non c’è e non tornerà mai, almeno fino a quando la minaccia non sarà stata neutralizzata (in pratica poco prima dei titoli di coda). È sempre il vecchio insegnamento del farcela con le proprie forze, senza l’aiuto di nessuno dall’esterno. Un po’ estremizzato, ovviamente, ma il tema del viaggio in solitaria (e del viaggio interiore) rimane un classico intramontabile. Si perdono quelle persone-simbolo che ci hanno accompagnato, sfoltendo quelle parti di noi che non possono sopravvivere nella crescita personale.
Numero 6: Prima di sparare, parla
Il protagonista si prenderà sempre un lungo momento prima di uccidere il cattivo, per tirare fuori una frase ad effetto. Non esiste sparo o colpo mortale che non venga inflitto senza una sentenza finale o, in alcuni casi, veri e propri dialoghi tra futura vittima ed eroe. Quasi come se si dovesse prolungare quel momento per posticipare la gioia liberatoria. Crea tensione emotiva e poi alleviala.
Intramontabile classica trama

Che siano presenti questi elementi anche in un film che si definisce ‘classico’? Meglio non specificarlo, per chi ancora non l’abbia visto. Lo spoiler può mettere in pericolo più di qualsiasi mostro o creatura sovrumana, quindi lo lascerò scoprire a voi. Quella che si può ‘spoilerare’ è invece la trama.
Tutto inizia con un car pooling (o meglio camper pooling, per non farsi mancare neanche il caro mezzo di trasporto tanto amato dagli americani) con 5 persone dirette verso una destinazione comune, la Calabria. Ci sono un bosco, una casa di legno nel mezzo di una radura e un’antica leggenda. I protagonisti si ritroveranno presto in un incubo che si rifà a ‘The Wicker man’, ‘Midsommar’, ‘The ritual’, senza dimenticare horror che hanno fatto la storia, come ‘La Casa’ di Sam Raimi e ‘Le colline hanno gli occhi‘ di Wes Craven. Non manca nulla, nemmeno qualche scena splatter alla ‘Kill Bill’. Insomma, classico schema, solito sviluppo. Oppure no?
Horror nell horror, critica nella critica

Come possiamo capire già da pochissime informazioni, ‘A classic horror story’ fin da subito ci appare come una dichiarazione d’intenti. Ammette di essere il classico film dell’orrore, quasi come un auto-accusa. E non fa niente per evitarlo, come se la sua forza e l’originalità dovessero essere proprio in questo.
In effetti, girare un film horror diventa sempre più complicato. Come si può riuscire ad essere originali e al tempo stesso tradizionali? Potrebbero bastare le regole appena citate?
La soluzione è inventare qualcosa di nuovo, e in questo caso gli elementi c’erano tutti. Soprattutto per la scelta del battere la pista del folk horror, molto interessante e originale. Questa pista, tuttavia, è stata abbandonata nel finale, per imboccare il sentiero dello stravolgimento, facendo perdere un po’ di forza alla storia. Come per farci tornare con i piedi per terra, i registi hanno giocato sul presentarsi, autodefinirsi, fornendo una storia classica per poi rivoluzionarla nel modo meno classico possibile. Chissà che semplicemente non c’abbiano creduto abbastanza.
Tattica e giustificazione pronta
In tutto questo si nota anche un po’ di pretattica. Un giocare d’anticipo, come sottolineato in alcune scene e nei titoli di coda.
Scherzare nell’autodefinirsi ed etichettarsi ha significato avere già la battuta pronta per quando il pubblico avrebbe deriso o contestato il film, prevenendo critiche che in questo modo vengono annullate. È un po’ come se uno dicesse di non saper fare una cosa, effettivamente non la esegue così bene, e quindi può giustificatamente ribadire di aver anticipato di non saperlo fare. Inattaccabile!
Viene dato per scontato che il pubblico non sappia giudicare una pellicola, così sono gli stessi registi ad anticipare (e in questo modo schivare) il pollice in giù, per autobocciarsi, facendo il verso al lamentone di turno che classifica a prescindere il cinema italiano.
Colpo di scena? Ma anche no…

‘A classic horror story’ è un film nel film che rappresenta il cinema, il genere e il pubblico ma va a toccare anche la società, il vero male di questo mondo. Questo ribaltamento e la meta narrazione non spiccano comunque per originalità. ‘Quella casa nel bosco’ vi dice qualcosa?
Nelle varie scene è tutto un citare fine a se stesso, un insieme di critiche e strizzatine d’occhio a diverse tematiche sociali, in maniera sempre superficiale.
Alla fine si tenta di far arrivare allo spettatore il messaggio contro l’industria cinematografica italiana e lo show del dolore. Una polemichina purtroppo trita e ritrita, che non aggiunge altro alla discussione. Il solito ‘Chi è il vero mostro? Il mostro siamo noi’. Lezione ricevuta. Morale stereotipata. Andiamo avanti.
Ma cos’hanno gli altri che io non ho?
Nel nuovo horror italiano di Netflix si nota la tendenza a girarlo in maniera internazionale. In alcune scene si arriva a scambi di battute in inglese (per via delle origini di alcuni personaggi) quasi come a voler ricalcare fino in fondo le pellicole d’oltreoceano. L’eterno modello americano sembra troppo in là, troppo lontano da raggiungere. Quel brivido made in Usa sembra sempre troppo difficile da replicare. Le saghe statunitensi, dall’’Esorcista‘ a ‘Saw’ a ‘Venerdì 13′, da ‘Final destination‘ ad ‘Amytiville‘, ‘La notte del giudizio‘, per passare ai coniugi Warren di ‘The Conjuring‘ e il tanto caro Freddy Krueger, senza dimenticare l’iconico Ghostface di Scream.
Tanti titoli che hanno riempito i nostri schermi e ci hanno terrorizzato, inquietato ma anche divertito. Certo, il fascino del retrò contribuisce ad aumentare l’epicità di questi titoli. Come se ci riportassero alla mente le prime sensazioni di quando, con le mani davanti agli occhi, approcciavamo per la prima volta l’horror. Ma non può essere solo colpa del tempo passato.
Il paradosso dell’orrore

I film horror ci annoiano, ci stancano presto, non ci fanno più paura. Tutto questo si collega al secondo grande focus di ‘A classic horror story’: la realtà ci ha reso umanoidi incapaci di provare per davvero orrore, ribrezzo e paura, anche di fronte a reali tragedie.
Siamo pronti ad ascoltare, a seguire ed informarci sull’ennesimo delitto passionale, strage e omicidio. Attraverso i media morte e orrore entrano subdolamente nelle nostre case, abituando i nostri occhi ad immagini e storie sempre più forti.
I nostri occhi desiderano la violenza. Ce ne nutriamo voracemente, e abbiamo bisogno di sempre più stimoli per esser soddisfatti, a qualunque età. Ormai anche il mostro sotto al letto o l’uomo nero nell’armadio finiscono per essere obsoleti. E forse è proprio questo il tentativo del film della coppia De Feo e Strippoli: trovare un’alternativa rivitalizzante per evitare un possibile lento declino di un genere da sempre al centro di critiche e commenti. Altrimenti la distopica fantasia che si realizza nel film potrebbe diventare pericolosamente realtà.
P.S. Musiche degne di nota
La musica, in wheremagichappens è sempre in primo piano. Per questo motivo, non si può non citare la colonna sonora. Davvero interessanti e da sottolineare le scelte musicali che accompagnano la pellicola, soprattutto per l’imprevedibile associazione che viene messa in atto. Mentre il film scorre risuonano brani che di norma mai assoceremmo alla paura, all’angoscia: ‘Il cielo in una stanza’ di Gino Paoli o ‘La casa’ di Sergio Endrigo. Proprio quest’ultima, nel gioco di sensazioni contrapposte, sembra quasi fatta apposta per ‘A classic horror story’. Tanto che dopo averlo visto, sarà difficile associarla ad un qualcosa di diverso.
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