Le basi prima di tutto

Senza troppi preamboli iniziamo subito con una parola: teatro! Teatro? Esattamente, una delle più antiche forme d’arte che ha saputo inoltre raggiungere l’immortalità, dal momento in cui ancora oggi rappresenta una valida opzione per trascorrere una serata (precisiamo poi che deve assolutamente essere sfatato il mito per cui, il teatro, sia un mero passatempo di élite).
Nel corso dei secoli, il teatro – almeno nella concezione con cui si è soliti fargli riferimento – si è visto evolvere e ramificarsi, a partire dalla Grecia classica, a cui risalgono i famosi canoni aristotelici o le tragedie opera di Eschilo, Sofocle e Euripide (nomi decisamente inflazionati, non solo per chi ha studiato al liceo classico, ma anche per un normalissimo ex geometra come il sottoscritto, ndr).
Passando poi per Shakespeare, Molière e Pirandello, si è dunque arrivati a una delle mode del momento, l’improvvisazione. Ma con un percorso che tende a sviare l’attenzione da altre realtà teatrali alternative, come quelle asiatiche, di cui il kabuki rappresenta un valido esempio.
Kabuki: dove e quando

Asia sì, ma dove? Per quanto sterminato possa essere questo continente, il teatro kabuki, analogamente al nō, vanta una tradizione totalmente made in Japan, Paese dove ebbe origine nel periodo a cavallo tra XVI e XVII secolo.
Mentre l’altro tipo di teatro appena citato rappresentava una delle forme di intrattenimento più amate dagli intellettuali e dai nobili della corte imperiale, il kabuki era invece uno degli svaghi preferiti dal resto del popolo, in particolare dai commercianti, la cui figura iniziava a ricoprire un ruolo di rilievo in Giappone proprio nel Seicento.
Sebbene col tempo siano nate diverse variazioni sul tema, la base ci è comunque mantenuta pressoché inalterata fino ai giorni nostri, specialmente nella gestualità e nel modo in cui le storie vengono narrate.

Una traduzione più che letterale
Procediamo con ordine. Cosa significa kabuki? Partiamo dalle origini del nome, o meglio dai tre caratteri giapponesi, i kanji, che lo compongono 歌 ka, 舞 bu, 伎 ki, che sono traducibili rispettivamente con canto, danza e tecnica (intesa come abilità), elementi appunto essenziali di questa forma di teatro.
Al contempo, però, abbiamo anche la derivazione dal verbo kabuku (la lingua del Sol Levante conta effettivamente un grandissimo numero di omofoni, ossia parole con lo stesso suono), significante ‘essere eccentrici’, caratteristica che effettivamente è propria di quest’arte.
La scelta stilistica di virare verso la stranezza, tuttavia, non corrisponde a un orpello fine a se stesso, dal momento in cui nasce soprattutto come reazione alla rigidità e al classicismo imposto sulle scene da quel teatro nō che abbiamo già avuto modo di menzionare qualche riga fa.
Al centro della scena: gli attori

Quindi, in sostanza, cosa ci si deve aspettare dal kabuki? Ovviamente, come si può già di per sé intuire, nulla di assimilabile alla tradizione del teatro occidentale, poiché tutto è differente, a partire dall’allestimento del palco.
Tratti tipici di quest’ultimo sono ad esempio la piattaforma girevole, che rende possibile i ripetuti e repentini cambi di scena, e lo hanamichi (letteralmente il cammino dei fiori), ossia una passerella percorsa per salire alla ribalta.
Cos’è però un teatro, asiatico, o europeo che sia, senza la sua corte di figuranti? Ecco quindi comparire, già sugli esordi, un manipolo di attori, originariamente appartenenti alla popolazione di ceto più basso, ma che col tempo diedero vita a vere proprie casate in cui l’arte veniva (e viene) tramandata di padre in figlio.
Solo pochissimi uomini, pochissimi artisti possono vivere eternamente perché eternità significa vivere interiormente, tutto il resto è illusione
Ichikawa Ennosuke III – attore kabuki
Trascorsi a luci rosse

A questo punto però occorre fare una breve parentesi, relativa al sesso della classe attoriale. Ed è interessante notare come essa sia composta esclusivamente da uomini. Sebbene in origine la recitazione del kabuki fosse ad appannaggio delle donne, un decreto seicentesco stabilì che queste venissero escluse dal mestiere, facendo sì che anche i ruoli femminili venissero recitati da maschi, questo per scongiurare (almeno secondo la mentalità dell’epoca) casi di gelosie e vendette.
Rimanendo sempre in ambito sessuale, ma in questo caso non più inteso da un punto di vista biologico ma come soddisfazione dei desideri carnali, bisogna aggiungere che, mentre nasceva il kabuki, cresceva al contempo la clientela dei quartieri di piacere, che erano spesso situati nelle immediate vicinanze dei teatri.
Considerando quindi l’iniziale indigenza di molti attori, è praticamente immediata la loro associazione all’attività parallela di prostituirsi con gli stuoli di ammiratori attratti dalla particolare avvenenza di alcuni di loro.

Niente è lasciato al caso
E dopo questo spaccato di vita di un tempo che fu (toni altisonanti a parte), torniamo al centro della rappresentazione a teatro, che, a seconda del tema trattato e dello stile recitativo, poteva o può riferirsi a due categorie principali: a scene militari e guerresche, oppure a quelle romantiche.
A prescindere comunque dal genere, elementi comuni si ritrovano prima di tutto dalla musica, eseguita con strumenti tradizionali, come lo shamisen, e composta da una parte a vista degli spettatori e da una nascosta.
Ma veniamo al clou, ossia a quegli aspetti che a colpo d’occhio consentono di distinguere il teatro kabuki da tutto il resto, oltre al trucco caratteristico, a quell’insieme di gesti unici nel loro genere.
Gli indiscussi protagonisti tuttofare

Durante la pièce, normalmente composta da tre parti, gli attori, che spesso risultano essere anche i registi, truccatori e assistenti di scena (questo, tra l’altro, è un vero e proprio ruolo ricoperto da figuranti incappucciati e vestiti di nero in modo da confondersi con lo sfondo), intrattengono il pubblico con danze e movimenti dai particolari valori simbolici, ereditati nientemeno che dal nō, che tendono talvolta a imitare la natura.
Tra scatti che richiamano quasi le articolazioni dei burattini, e passi danzanti più o meno rapidi, si ha quindi una gestualità quasi ipnotica, basata su balzi, salti, pose particolarmente enfatiche dove la drammaticità è ulteriormente accentuata da un voluto strabismo degli occhi, movimenti del ventaglio e all’occorrenza simulazione di duelli con la katana.

– ritratto da Tōshūsai Sharaku
Dentro e fuori dal teatro
L’importanza culturale del kabuki per i giapponesi, inoltre, fa sì che i riferimenti a questa forma d’arte non si limitino al solo perimetro del teatro, dal momento in cui sono moltissime le derive collaterali che sconfinano anche in altri frangenti, a partire dalla pittura fino al mondo dell’animazione.
Andando infatti a riprendere il variegato mondo delle stampe Ukiyo-e, insieme ai paesaggi e alle scene di vita della città, soggetto frequente di maestri come Hiroshige sono gli attori e le rappresentazioni del kabuki.
Parallelamente, i richiami soprattutto alla messinscena e alle pose di questo tipo di teatro sono estremamente comuni in molti manga e anime, basti solo pensare all’eclatante esempio offerto da One Piece nella saga ambientata a Wano, paese dove è innegabile l’ispirazione al Giappone del XVII secolo.
Tra complicazioni e possibilità

E se si volesse assistere a una rappresentazione? Ecco venir fuori i primi problemi. Dal momento in cui il kabuki è una forma d’arte espressamente tipica del Sol Levante, la fruizione da parte di un pubblico non debitamente formato da un punto di vista linguistico e letterario, può rappresentare un limite non da poco, specialmente per una diffusione nel resto del mondo.
Perlomeno, nonostante si tratti di eventi sporadici, può talvolta capitare che, in città dove vi sia una forte presenza di associazioni culturali nipponiche (come Roma, volendo far riferimento alla realtà italiana), vengano organizzate performance anche per spettatori meno avvezzi a questa spettacolare tipologia di teatro che, similarmente alla poesia haiku, potrebbe arrivare a contare molti più appassionati occidentali di quanto si possa immaginare.