Un’artista disturbante
Marina Abramović, una delle artiste contemporanee più controverse. Il 16 luglio, il Maxxi di Roma, si prepara ad accoglierla. Sarà protagonista, insieme al direttore del museo, Hou Hanrou, di un talk che la porterà a ripercorrere i momenti più salienti della sua carriera. In particolare, l’Abramović svelerà i segreti e i retroscena della sua performance Rhythm 0 (1974). L’artista interverrà in occasione della mostra ‘Più grande di me. Voci eroiche dalla ex-Jugoslavia‘, che vedrà 54 artisti confrontarsi e raccontare i temi dell’accoglienza e della convivenza.
Rose e catene: gli estremi di un esperimento estremo
Marina ha sempre fatto parlare molto di sé, lasciandosi dietro una lunga scia di adoratori e una altrettanto numerosa schiera di detrattori. In più lingue la sua arte viene definita disturbante. Un’arte fatta di azioni, di gesti e immagini che etimologicamente provocano inquietudine, ansia, disagio. L’artista serba ha da sempre usato il corpo come strumento e mezzo d’espressione, convinta che per scavare nel dolore e nella frustrazione non potessero mai bastare colori e pennelli.
Sarebbe limitativo definire performance quella che l’Abramović mise in piedi a Napoli nel 1974, nella galleria Studio Morra. Probabilmente utilizzando il termine esperimento sociale renderemmo maggior giustizia a tutto ciò che avvenne sotto il nome di Rhythm 0. Un tavolo, 72 oggetti, un corpo da usare anch’esso come oggetto, sei ore di tempo: questi sono gli ingredienti mescolati da Marina per dar vita a una performance esplosiva, che non mancò di sconvolgere critica e pubblico e che spostò un pezzetto più avanti il limite delle arti performative.
L’Abramović realizzò la sua opera basandosi su tre elementi: spazio, tempo e corpo e quindi sul ritmo (da cui la denominazione Rhythm 0), un elemento che sta molto a cuore a noi di WMH.
La performer mise a disposizione del pubblico il proprio corpo per ben sei ore: dalle 20 alle 2 del mattino una platea di uomini e donne poté prender parte alla scena ideata accuratamente dall’artista. Il pubblico ebbe a disposizione una serie di oggetti destinati a provocare piacere o dolore, tra cui del miele, delle rose, un martello, delle catene.
Ci sono 72 elementi sul tavolo e si possono usare liberamente su di me. Premessa: io sono un oggetto. Durante questo periodo, mi prendo la piena responsabilità di ciò che accade
Marina Abramović
Se sulle prime i partecipanti si mostrarono timidi, inclini al romanticismo (le misero in mano delle rose) e comunque molto formali e pudici, dopo un paio d’ore non tardarono ad arrivare le prime reazioni sconvolgenti. Il pubblico arrivò a tagliarla con delle lamette, a succhiarle il sangue dal collo, a denudarla e addirittura a metterle una pistola carica tra le mani, costringendola a puntarsela contro. Insomma, l’iniziale pudore lasciò ben presto il posto all’aggressività e al sadismo.
Durante la terza ora tutti i suoi vestiti erano già stati tagliuzzati. Durante la quarta ora la sua pelle venne esplorata dalle lame del rasoio. Le si squarciò la gola quel tanto che qualcuno poté succhiarle il sangue
Thomas McEvilley
Marina Abramović, alla fine dell’atto performativo, inizio a muoversi, andando incontro al suo pubblico, ma la maggior parte delle persone presenti scappò, evitando persino di guardarla negli occhi. La vergogna non permise loro di affrontare l’essere umano dietro al corpo che avevano violato. Il giorno successivo la galleria d’arte ricevette diverse telefonate da parte di uomini che porgevano le loro scuse per quanto accaduto la notte precedente.
La donna uscì profondamente turbata dalla performance, violata fisicamente e mentalmente. Racconta di essersi sentita sola e in grande pericolo durante le sei ore trascorse a disposizione del pubblico. L’esperienza le regalò una bellissima ciocca di capelli bianchi.
Perché se ne parla ancora?
Ma perché oggi, dopo 47 anni, siamo ancora qui a parlarne? Cos’è che ci sconvolge e cosa desiderava dimostrare Marina con un’esibizione tanto destabilizzante? Naturalmente la risposta a queste domande non è univoca, ma possiamo fare delle riflessioni. Senz’altro, possiamo dire che la natura umana è subdola e meschina. È facile trovarsi dall’altra parte e mettersi in salvo con un “io non l’avrei mai fatto”, ma l’arte provocatoria della performer serba non lascia scampo a nessuno, nemmeno a chi la guarda da lontano. Non si può essere spettatori senza essere anche attori.

Guardando la performance, anche oggi a distanza di anni, è inevitabile trovarsi dentro un turbine di emozioni: paura, vergogna, sadismo, orrore o eccitazione vengono fuori in dosi diverse, secondo quanto ognuno vuole e può concedersi.
In Rhythm 0 viene cancellata ogni separazione tra artista e pubblico. Si indagano grandi temi filosofici, quali la libertà e il rispetto dell’altro, i limiti del corpo contro le infinite possibilità della mente, intese come territori da esplorare oltre la paura.
Bis, per favore!
Marina ha recentemente espresso il desiderio di voler replicare l’esibizione, con le stesse modalità e gli stessi oggetti, ma con estrema delusione dovrà rinunciare a questo desiderio: nessun museo, nessuna galleria d’arte le consentirebbero di mettere fra gli oggetti del suo show una pistola carica. Gli anni Settanta hanno permesso la realizzazione di una performance straordinaria, controversa, capace di scavare dentro di noi un solco profondo, dividendoci tra coloro che provano un incommensurabile orrore e coloro che provano un profondo senso di appagamento.

Facendo parte della seconda schiera, posso confermare che l’appagamento non deriva dal piacere di veder infliggere dolore a terzi, assolutamente no. Questo senso di pienezza, guardando l’arte di Marina, scaturisce dal fatto che finalmente qualcuno è stato in grado di mettere a nudo, su uno stage (cosa difficilissima), l’essenza dell’uomo, delle sue dinamiche sociali. Lo ha fatto sfacciatamente, pagando qualsiasi prezzo pur di metter in scena la misera commedia dell’essere umano. Rhythm 0 sa ancora provocarci un moto interiore perché, lontano dalle luci della ribalta e dal chiacchiericcio del pubblico, ci lascia soli con un’unica domanda: “Io cosa avrei fatto davanti a quel corpo”?