Quando la pandemia ha uno sceneggiatore d’eccezione

C’è stato un periodo in cui sui social giravano divertenti meme che attribuivano a Stephen King la ‘sceneggiatura’ del 2020. In effetti, tra pandemia, pericolosi virus e vari lockdown, la sensazione è che proprio il maestro dell’horror possa averci messo lo zampino. Se poi aggiungiamo le capacità divinatorie dello stesso scrittore, che 40 anni fa scrisse ‘The Stand’ (‘L’ombra dello scorpione’), il quadro è completo.
A proposito, per i fan dell’opera, da gennaio su StarzPlay è arrivato il nuovo adattamento dell’immenso lavoro di Stephen King (eh già, più di 1000 pagine!), già adattato negli anni ’90 in una miniserie televisiva decisamente low budget. La nuova serie Cbs è sembrata tempestiva nell’apparire nell’anno della pandemia globale da Covid-19.
Ma com’è che è riuscito a diventare uno dei romanzi più amati e celebri dello scrittore del Maine? La risposta è legata, senza dubbio, al tema del post apocalittico.
“What if”? ll fascino della decadenza che ci attira
Quello del post-apocalittico è un genere che non passa mai di moda. Sono ormai centinaia le produzioni di tv, cinema e videogiochi (persino eventi a tema) che ipotizzano la fine del mondo.
Perché sentiamo il bisogno di immaginare che la razza umana venga distrutta, massacrata, infettata, invasa da alieni e quant’altro? Perché ci piace immaginare l’apocalisse?
Uno dei motivi principali, e più immediati, è legato al desiderio di ricominciare da zero. Dopo ogni apocalisse che si rispetti, ai ‘fortunati’ sopravvissuti è data la possibilità di costruirsi una nuova vita, diversa da quella precedente, dettata da esigenze personali e non da pressioni esterne, più genuina e istintuale, che (in modo paradossale) finisce per assecondare maggiormente le inclinazioni individuali.
Esiste inoltre il discorso della socialità, vista con una prospettiva diversa, quella del voler tornare all’antico, al primordiale incontro di gruppi di persone più vicine fisicamente, legate da motivazioni forti quanto la sopravvivenza e con la consapevolezza di essere indispensabili. Avere un ruolo nel mondo, per così dire. La socialità, allo stesso tempo, ha imposto regolamenti non sempre facili da rispettare. Regolamenti che sotto sotto vorremmo poter infrangere senza sentirci immorali o colpevoli. In un mondo senza regole tutto sarebbe concesso, tutto sarebbe libero. E una parte selvaggia, dentro di noi, lo vorrebbe.
La nostra società non è più abituata alla violenza fisica e l’ha relegata (in parte) nei film e nelle serie tv. Essi sono diventati un motivo di sfogo di pulsioni e rabbia. La stessa rabbia che si può sfogare sul divano davanti a giochi e film, dove non si rischia nulla.
Infine, un punto risulta parimenti importante per comprendere il fascino della fine del mondo: l’uomo teme se stesso, forse più della natura. Ed ha paura dell’incontrollabilità del suo potere che esercita tramite scienza, inquinamento ambientale, guerre e così via. Questa sempre maggiore consapevolezza del danno continuo al pianeta, aiuta ad immaginarne (e forse auspicarne?) facilmente la distruzione.
Il genere non tramonterà. Non prima che tramonti l’uomo
Il genere è e sarà sempre amato, la tendenza non cambierà mai. Ciò che cambia sono i sotto-generi che compongono questo tema. Abbiamo gli zombie e la società che, incapace di contenere un’infezione, viene sovvertita; il post-atomico, molto amato negli anni ’80 e tornato in voga negli anni 2000, in cui l’umanità spesso torna a livelli tecnologici medievali; gli alieni, le macchine e la resistenza organizzata contro gli invasori; il cataclisma ed il meteorite di turno.
Dopo la recente pandemia (che sembra mostrare all’orizzonte la parola fine), dopo i vari ‘Contagion‘, morti viventi e mille altri prodotti simili, davvero il pubblico del 2021 sente ancora il bisogno di un altro racconto simile? La risposta è ovviamente sì. Magari, con una sola condizione: la presenza di un punto di vista inedito per distinguersi all’interno di un gruppo di prodotti esteticamente simili. Le serie di cui stiamo per parlare l’avranno rispettata?
Che mondo sarebbe senza gli uomini?

Cadaveri nelle strade, tracce di incidenti devastanti, tutto è immobile. In giro non c’è anima viva e, da come sono parcheggiate le automobili, sembra ovvio che si sia appena verificata la (quasi) fine del mondo: nel nostro immaginario collettivo si tratta del classico scenario post apocalittico.
Yorick Brown (Ben Schnetzer) si ritrova ad essere l’unico uomo in questo mondo desolato, dopo che un evento catastrofico ha ucciso tutti gli abitanti del pianeta con il cromosoma Y. Cosa ha di speciale Yorick per essere ancora vivo?
Tratto dalla serie distopica di fumetti di Brian K. Vaughan e Pia Guerra, ‘Y: L’ultimo uomo’ (titolo originale ‘Y: The Last Man’) è arrivata su Disney+ nella sezione Star. Dieci gli episodi in totale, dei quali i primi tre sono stati proposti insieme, mentre gli altri sette sono in uscita a cadenza settimanale.
L’apocalisse e quel futuro (in)aspettato
Uscito nel 2002 come fumetto targato Vertigo (Dc Comics), si era pensato già nel 2010 di farne un adattamento cinematografico. Idea complessa, dato che sarebbe stato quasi impossibile tradurre una collana di sessanta volumi in una pellicola di due ore.
A causa dei vari ritardi produttivi e dei vari passaggi di consegne dietro le quinte, la serie è arrivata sui nostri schermi in un periodo in cui scenari distopici e apocalittici non sono una sorpresa o una novità. Grazie a tanti prodotti esteticamente simili, viene a mancare proprio quella forza dell’inedito e quel punto di vista originale.
Almeno nei primi capitoli percorre strade familiari e prevedibili, proponendoci sul piano narrativo un qualcosa di già visto.
I figli orfani di Walking Dead

Già dalla sequenza d’apertura non possiamo non pensare al noto ‘The Walking Dead’, anch’esso disponibile su Disney+ e basato su un fumetto (a proposito, è uscita la stagione finale).
L’aspetto reiterato (e dunque meno interessante) risulta quello classico del mondo post apocalittico: la ricerca di cibo, l’assenza di elettricità, la costruzione di gruppi intorno a un leader, la diffidenza nei confronti dell’altro. Tanti elementi già visti in film e serie tv, con i sopravvissuti che si coalizzano, creano gruppi e viaggiano per strade deserte e pericolose, incontrando nuovi personaggi – amici o nemici – a seconda dei casi. Tutte cose sicuramente necessarie, ma che da sole non bastano: da punti di forza quali erano, il timore è che possano diventare i limiti di un genere su cui si può lavorare poco, avendo delle formule convenzionali necessarie e non eliminabili.
La serie, almeno nelle prime puntate ,non apporta nulla rispetto a quegli elementi di psicologia del gruppo, di organizzazione alla sopravvivenza e di rapporti individuali profondamente cambiati, già affrontati sapientemente nelle prime stagioni della nota serie sugli zombie.
Quando un cromosoma fa la differenza
C’è tuttavia una novità anche a livello tematico, che probabilmente avrà anche lo scopo di far riflettere su alcuni aspetti dei tempi in cui viviamo (“rinculi interiori politically correct“ per dirla alla Wallace): lo show sottolinea il fatto che Yorick sia l’ultimo maschio ‘cis‘ ad essere rimasto in vita, muovendo l’attenzione anche sulla comunità transgender (tra l’altro mediante l’introduzione di un personaggio nuovo rispetto al fumetto, Sam Jordan, interpretato da Elliot Fletcher).
Inoltre, l’evento catastrofico della serie permette una sorta di rivalsa del genere femminile e un ribaltamento dei ruoli, quasi come una specie di contrappasso nei confronti di una società considerata spesso troppo maschile e maschilista. Un esempio, a tal riguardo, lo ritroviamo con il personaggio di Jennifer Brown (Diane Lane), madre di Yorick e membro del Congresso, che prende la carica di Presidente degli Stati Uniti. Grazie a questa scelta, la serie vira verso una piega sociale e politica, lasciando intendere quanto i ruoli importanti siano stati da sempre ricoperti dagli uomini, lasciando le donne ai margini.
Brian K. Vaughan e Pia Guerra nel 2002 avevano immaginato un futuro completamente sovverso, in cui la figura femminile sarebbe stata centrale. Un aspetto diametralmente opposto, se ci pensate, alla storia raccontata in ‘The Handmaid’s tale’ (‘Il racconto dell’ancella’), nel quale futuro distopico un’improvvisa infertilità delle donne di tutto il pianeta minaccia l’estinzione di massa. Le pochissime donne fertili, ribattezzate ‘Ancelle’, sono assegnate alle famiglie elitarie e subisco stupri da parte del proprio padrone, al fine di procreare.
‘Y: The Last Man’ rimane comunque una serie dal potenziale interessante. Chissà che già a partire dalle prossime stagioni (vista la mole dell’opera originaria sembra molto probabile un suo prosieguo) non possa riuscire ad entrare con pieni meriti nella top delle serie post apocalittiche.
The Last of Us, finalmente la serie tv!

Se è vero che la novità molto spesso attira, è altrettanto vero che c’è un altro modo per richiamare l’attenzione del pubblico: una serie tratta da un videogame di successo.
‘The Last of Us’ è uno dei videogiochi più amati degli ultimi anni, nonché uno dei più premiati e apprezzati dalla critica insieme al seguito ‘The Last of Us Part II’. L’arrivo dell’omonima serie tv su Hbo è stato annunciato a marzo dell’anno scorso, riaccendendo nuovamente l’interesse dei giocatori di tutto il mondo e di tutti gli amanti delle serie sul post apocalittico.
‘The Last of Us’ si svolge in un mondo devastato da un’epidemia, causata da alcune spore, che ha provocato un’apocalisse zombie. Joel ed Ellie, i due iconici protagonisti, lottano per sopravvivere in un mondo in cui il pericolo proviene anche dagli altri essere umani. Esiste una possibile cura? A cosa saranno disposti i due protagonisti pur di arrivare ad essa?
Sebbene la produzione della serie non sia ancora iniziata a pieno regime, sono già tante le informazioni pervenute, abbastanza per farci un’idea di cosa dovremmo aspettarci.
Quando il successo è sinonimo di successo
‘Game of Thrones’, ‘i Soprano’, ‘Six Feet Under’, ‘The Wire’, ‘The Leftovers’, ‘Watchmen’. Se pensate a questi nomi, non può che venirvi in mente un unico brand: Hbo, certezza in termini di prodotti di altissima qualità. Al suo fianco ci saranno Sony Pictures Television e PlayStation Productions.
Anche Naughty Dog, casa produttrice di ‘The Last of Us’ e del seguito, avrà un ruolo importante nello sviluppo dello show: la serie sarà infatti co-sceneggiata da Neil Druckmann, produttore esecutivo e autore dei due videogiochi. Lo stesso Druckmann dirigerà uno degli episodi della serie, mentre la regia dell’episodio pilota, le cui riprese si sono concluse il 31 agosto 2021, è stata affidata a Kantemir Balagov, il regista russo del film ‘La ragazza d’autunno’, vincitore a Cannes 2019. La serie tv di ‘The Last of Us’ sarà composta da un totale di dieci episodi.
Insomma, i fan del gioco possono iniziare a sfregarsi le mani, soprattutto perché con queste premesse si dovrebbe scongiurare una delle paure più grandi legate alle trasposizioni televisive: la fedeltà al videogioco.
Essere fedeli “is the new way!”
Stando alle dichiarazioni di Druckmann, la trama della serie sarà la stessa del gioco: a distanza di vent’anni dall’inizio di una pandemia che ha trasformato profondamente il mondo, un sopravvissuto di nome Joel verrà assoldato per far evadere la quattordicenne Ellie da una zona di quarantena dalla quale è praticamente impossibile fuggire. Da quel momento inizierà una vera e propria lotta per la sopravvivenza. La volontà è dunque quella di non snaturare la storia, mantenendone la filosofia alla base e conservando interiorità dei protagonisti e dinamiche dei personaggi.
Il game director ha affermato di voler raccontare la storia di Joel ed Ellie in maniera coerente, addirittura riportando negli episodi alcune importanti battute del gioco. Questo non significa che non dovremo aspettarci situazioni e scenari differenti da quelli del videogame. La serie tv ci darà inoltre la possibilità di esplorare ulteriori aspetti del rapporto tra i due protagonisti, nuovi scenari e magari le storie di nuovi e vecchi personaggi presenti in ‘Last of Us part II’ e nel Dlc ‘Left Behind’. Un esempio? Abby e Riley.
A proposito di apocalisse zombie: la tendenza alla fedeltà videoludica sembra stia prendendo sempre più piede nell’universo televisivo e cinematografico, come dimostra anche il primo trailer di ‘Resident Evil: Welcome to Raccoon City’. Le immagini sembrano confermare la voglia di essere più vicini al gioco, lasciando completamente da parte le precedenti versioni cinematografiche (PS l’uscita nelle sale americane è prevista per novembre, per l’Italia non abbiamo ancora notizie certe).
Per una grande serie, un grande cast

Come ogni trasposizione che si rispetti, fin dalle prime notizie riguardanti il suo arrivo, i fan hanno iniziato a chiedersi quali sarebbero stati gli attori ad interpretare Joel ed Ellie. Le pretese sono sempre state molto alte: le strepitose performance di Troy Baker e Ashley Johnson, che hanno prestato le voci ai due protagonisti dei giochi, sono rimaste nel cuore di tutti.
Sebbene lo scorso anno circolassero insistenti rumor su Nikolaj-Coster Waldau come possibile protagonista della serie, i veri attori sono stati recentemente rivelati: a interpretare Joel ed Ellie saranno infatti Pedro Pascal e Bella Ramsey, entrambi conosciuti ai più grazie a ‘Game of Thrones’. Entrambi gli attori hanno dato l’annuncio sui social, ricevendo il benestare pubblico degli stessi Baker e Johnson. Il mondo dei fan, come al solito, si è invece diviso tra scontenti ed entusiasti.
Un altro interprete noto è Gabriel Luna che vestirà i panni di Tommy, il fratello di Joel. È stato anche confermato il ritorno di Marlene, che sarà interpretata da Merle Dandridge, attrice che prese già parte all’originale videogioco per Ps3 nello stesso ruolo. A luglio è inoltre stato reso noto che Nico Parker sarà Sarah, la figlia di Joel, e Anna Torv interpreterà il ruolo di Tess. Per la colonna sonora, vero e proprio marchio di fabbrica per entrambi i giochi, avremo ancora una volta Gustavo Santaolalla.
A che ora è la fine del mondo?
Per ora non si hanno informazioni precise riguardo alla data di uscita della serie, che al momento si trova ancora in fase di sviluppo. Secondo lo sceneggiatore Craig Mazin, le riprese sarebbero iniziate subito dopo la pubblicazione di ‘The Last of Us Part II’ su PlayStation 4. Ed in effetti sono effettivamente cominciate a luglio 2021 e si protrarranno per circa undici mesi/un anno. L’uscita è quindi attesa per la seconda metà del 2022.
Solitamente le serie tv targate Hbo vengono rese disponibili per gli utenti italiani su Sky Atlantic, ma al momento non ci sono ancora informazioni ufficiali al riguardo. Sony ha recentemente firmato per gli Usa un contratto con Netflix, ma non è ancora stato reso noto se sarà valido anche per gli adattamenti PlayStation, né se lo sarà per l’Italia, poiché la serie tv di ‘The Last of Us’ sarà in ogni caso firmata Hbo.
Un nuovo pianeta, una nuova umanità

Altro scenario, altra visione post-apocalittica. Stavolta siamo al cospetto di un pianeta desolato, in un futuro distopico in cui la Terra è stata distrutta e il destino della razza umana è affidato a due androidi. Stiamo parlando di ‘Raised by Wolves’, serie tv composta da dieci episodi, uscita in Italia su Sky Atlantic a partire dall’8 febbraio 2021.
Prodotta da Hbo, questa serie fantascientifica ha segnato il debutto televisivo di Ridley Scott, il famoso regista di ‘Alien’, ‘Blade Runner’ e ‘Prometheus’.
Grazie anche al suo cast, formato da Travis Fimmel (esatto, proprio Ragnar Lothbrok di ‘Vikings‘), Amanda Collin e Abubakar Salim, ‘Raised by Wolves’ ha riscosso un notevole successo, ed è stata rinnovata per una seconda e attesissima stagione.
Tra guerra e pace, la religione
In un futuro non meglio specificato, una guerra tra Atei e Mitraici (ovvero i religiosi chiaramente ispirati ai cristiani) ha distrutto la Terra. Madre (Amanda Collin) e Padre (Abubakar Salim) sono una specie di moderni Adamo ed Eva androidi, chiamati a portare a termine una missione fondamentale: dare origine ad una colonia umana sul pianeta Kepler-22b. Per farlo, dovranno allevare dei bambini e ricostruire una nuova umanità, lontano dalle guerre e dalle divisioni religiose della loro terra natale. Kepler 22 è tuttavia un pianeta ostile, misterioso e pieno di insidie e crescere dei figli non sarà un compito facile.

L’impronta spaziale di Scott
Lo show convince nel rappresentare il futuro distopico di un’umanità alla ricerca di un nuovo inizio. Sebbene sia prodotta e diretta soltanto per i primi due episodi da Ridley Scott, rimane permeata di una serie di temi ed elementi molto cari al regista britannico: gli androidi di ‘Blade Runner’ e di ‘Alien’, le atmosfere dello spazio ignoto, la questione della predeterminazione e dell’esistenza di entità diverse dall’uomo, ma anche la guerra, la fede, l’origine della vita. Tutte tematiche attuali dalla grande attrattiva.
Lo stesso conflitto umano tra fazione religiosa (detentrice del potere) e laica (sottomessa) proposto negli episodi dimostra una certa attualità. Dopotutto, lo scontro tra una visione terrena e razionale e il bisogno di aggrapparsi a una forza superiore è sempre esistito, non vi pare? Tutto ciò spinge lo spettatore ad una serie di riflessioni su argomenti che, in fin dei conti, sono alla base della nostra vita.
Cosa potremmo aspettarci nella seconda stagione?
Il pubblico amante del genere è senza dubbio attratto da tutte queste tematiche esaminate in ‘Raised by Wolves’. Rimane, tuttavia, sempre il solito dubbio: storie di androidi e pianeti da conquistare, lotte di potere e scenari post apocalittici. Cosa potremmo trovare di innovativo che possa spingerci a voler proseguire nella serie? Sicuramente l’insieme di colonna sonora, regia, sceneggiatura, e soprattutto la scenografia, con quel Kepler ricco di mistero che sa attirarci e conquistarci.
Repetita iuvant, e anche parecchio!
Schemi che si ripetono, scene che sembrano continui deja vu. Ma c’è una ragione se ci viene voglia di guardare e riguardare le serie tv, anche se sembra di averle già viste?
‘Riguardare’ qualcosa è attraente per diversi motivi: innanzitutto è un modo perfetto per poter rivivere particolari sentimenti piaciuti (non necessariamente piacevoli). In questo modo, le cose che ci sentiamo spinti a riguardare sono quelle che ci forniscono conforto. Inoltre, conoscere o ipotizzare già il resto della storia che si sta guardando contribuisce a promuovere un senso di sicurezza che viene un po’ perso quando la narrazione esce fuori dai binari dell’ordinario.
La verità è che noi spettatori amiamo la prevedibilità (ma non lo ammetteremo mai!) poiché è rassicurante e ci permette di avere, almeno in questo campo, una sorta di controllo. E poi lo sappiamo tutti, incontrare più volte uno stimolo lo rende sempre un po’ più piacevole. Vi dice niente la pubblicità?
Quando guardiamo un episodio, è come se incontrassimo un amico, ascoltassimo qualche gossip, vivessimo qualche avventura. Quando gli episodi finiscono, perché non ripetere il tutto?
Neel Burton, psicologo
Alcune ricerche mostrano che la nostalgia può rendere le persone più ottimiste rispetto al futuro, e ridurre l’ansia. Un’ottima notizia, soprattutto se il futuro dovesse essere come quello descritto in queste serie post apocalittiche, talvolta molto lontane dalla nostra realtà, altre volte inquietantemente vicine.