Le migrazioni fanno parte dell’umanità da sempre. Le persone migrano da un luogo all’altro alla ricerca di una vita migliore. Molte scappano da una guerra, da una crisi umanitaria, dalla povertà, dalla mancanza di diritti umani, dalle persecuzioni. Donne, uomini, bambini e bambine, guidati dalla disperazione si imbarcano in viaggi che spesso li portano verso la morte. Alla fine del 1800 anche gli italiani migravano alla ricerca di una vita migliore, rincorrendo il sogno americano. Prima però, dovevano passare per Ellis Island.
“Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire… Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi… Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo… la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte… magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni… alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare… e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava: l’America.”
Novecento, Alessandro Baricco


La storia di Ellis Island
1 gennaio 1892, baia di New York, viene inaugurata la stazione d’immigrazione di Ellis Island, che vide passare oltre 20 milioni di immigrati in viaggio verso il sogno americano. Coperti di soli stracci, con pochi averi dentro in un sacco o i più fortunati nei bagagli, ammassati su navi affollate divise per classi.
La prima a sbarcare sull’isola è stata Annie Moore, una diciasettenne di Cork, in Irlanda. Era in viaggio con i suoi due fratelli e dovevano raggiungere i genitori. I migranti arrivavano da tutto il mondo, ma erano soprattutto italiani. Sull’isola vigeva questa norma:
“I vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano.”

Negli anni ’20 le teorie dell’eugenetica, che tendevano alla creazione della razza superiore, rigettando chi veniva giudicato inadatto o moralmente difettoso, come omosessuali o di sessualità illecita, si diffusero molto velocemente. Chi era sospettato di avere un qualche disturbo mentale o altro, doveva affrontare una seconda visita.

Dopo l’ispezione medica i migranti attendevano di essere chiamati da un funzionario doganale. Passato il colloquio con il funzionario, potevano entrare in paese. Di solito ci voleva qualche ora, ma chi magari non disponeva di tutti i documenti, o presentava sintomi di una qualche malattia, veniva trattenuto sull’isola per giorni, a volte anche per settimane. Sull’isola potevano godere di un posto a dormire e del cibo, anche se la paura di essere rimandati al proprio paese era tanta.

C’era anche una specie di scuola dove i bambini, che dovevano rimanere ancora sull’isola per le difficoltà burocratiche dei genitori, imparavano le prime parole di inglese.
“Tutte le mattine andavamo a fare colazione. Fu lì che iniziai a imparare l’inglese. Le infermiere ci facevano il bagno, ci davano biancheria pulita e a volte perfino dei vestiti.” Angela Maria Pirrone
Chi invece veniva ritenuto idoneo poteva dirigersi verso il molo di Ellis Island, per prendere il traghetto per New York, con un cartellino identificativo attaccato sulla giacca.

La stazione di Ellis Island è rimasta attiva fino al 1954. Ora il centro di controllo è un museo nazionale, Ellis Island National Museum of Immigration, dove è stata documentata la storia dell’immigrazione attraverso fotografie, cimeli di famiglie e testimonianze.