‘Tár’, la trama del film
Lydia Tár (Cate Blanchett, 53 anni) è direttore di una delle principali orchestre di Berlino, vanta una carriera invidiabile, un fascino sconcertante e un lungo, insigne curriculum che si è costruita negli anni grazie alla sua forza calcolatrice, al suo impegno glaciale, oltre che a un sincero amore per la musica.
Il film si apre su una Lydia (Cate Blanchett) visibilmente nervosa ma pronta a entrare in scena per un’intervista con Adam Gopnik al New Yorker Festival. Davanti a una platea di altolocati ammiratori Gopnik sciorina i suoi successi uno per uno, sul labiale di Francesca Lentini (Noémie Merlant), la sua assistente, che sillaba in silenzio una litania ormai imparata da tempo.
Tár è in procinto di pubblicare un libro e con l’orchestra si prepara a registrare dal vivo la Quinta Sinfonia di Mahler, ma quello che non traspare dall’intervista è che sta anche procedendo con una scrittura musicale difficoltosa e frammentata: in diverse scene la vediamo confidarsi con il suo mentore e predecessore Andris Davis (Julian Glover) circa la difficoltà di questo sforzo creativo dedicato a sua figlia Petra.

Quando la notizia del suicidio di una borsista americana, Krista Taylor, con la quale sembra che Tár abbia avuto una relazione, giunge alle orecchie della stampa, la carriera della protagonista è appesa a un filo, finché non colerà definitivamente a picco.
Lydia mostrerà qui tutta la sua freddezza disumana: davanti a una Francesca in lacrime per la morte di un’amica che “aveva delle potenzialità”, risponderà in maniera brusca “non era una di noi” e chiederà di cancellare tutte le e-mail inerenti a Krista, per lo più lettere disperate che lasciavano intendere un intento suicidario.
Francesca fra l’altro ricorderà a Lydia di un viaggio che avevano fatto tutte e tre insieme, con nostalgia e rammarico; un viaggio dove forse avevano condiviso esperienze molto più intense di quanto ci si aspetti da due giovani borsiste alle prese con un percorso di formazione orchestrale.

La ‘navigata’ Lydia quindi vorrà subito dimenticare e mettere tutto a tacere. Ma la più sensibile Krista, a quanto pare, aveva perso la testa per il suo maestro mettendo a rischio la sua posizione sociale.
Francesca d’altro canto, dopo essere stata scartata come vice direttore e aver assistito all’ennesimo favoritismo che aveva fatto salire in prima fila alla filarmonica la giovane e affascinante violoncellista russa Olga Metkina, consegna le sue dimissioni e aiuta gli avvocati accusatori a fornire prove contro la donna.
Lydia Tár è un personaggio reale?
Ho visto il film tre volte. Alla prima, poco informata sulla pellicola, ho subito pensato che Lydia fosse reale, come reale è Adam Gopnik e il New Yorker Festival. Cercando su internet ho trovato su Twitter la pagina di Lydia Tár: era Cate Blanchett.
Todd quindi non solo è riuscito benissimo nell’intento di far credere a uno spettatore inconsapevole dell’esistenza di Tár, ma è andato addirittura oltre: alcuni hanno ricollegato il tema della scalata al potere (con conseguente abuso di potere) al movimento #metoo o al dibattito sulla cancel culture.
Altri hanno definito il film ‘snob’ e inconcludente, altri ancora di difficile lettura e valutazione, altri lo venerano già come un capolavoro assoluto, un mostro sacro destinato al cultismo.

Fatto sta che anche la protagonista, man mano che il film va avanti, verrà sempre più mostrificata e desacralizzata nel mentre che crescono le accuse contro di lei. Lei, dal canto suo, non farà nulla di buono per smentire le accuse, oltre che negarle e rispondere in maniera evasiva ‘non lo so’, ‘non ricordo’, ‘sono calunnie’. Ma forse la chiave di lettura centrale è che Tár è una storia di viaggi astrali e di fantasmi, con forti rimandi antropologici, sciamanici e spirituali appresi nei 5 anni di permanenza della Tár con la tribù Shipibo-Conibo in Perù.

L’ambiguità ‘pour-parler‘ di Todd Field
Nella sua regia Todd suggerisce, allude, stuzzica lo spettatore in vari modi: attraverso un sensuale plurilinguismo (le protagoniste parlano in inglese, tedesco, francese) e una narrazione che, mantenendo l’ambiguità e favorendo l’immaginazione, lascia aperte svariate interpretazioni e congetture.
Non sappiamo veramente se la Tár abbia tradito Sharon con altre, se abbia avuto davvero una relazione con Francesca con Krista o con la giornalista incontrata a New York: quello che notiamo è il suo incredibile ascendente capace di suscitare aspettativa e disperazione. La Tár è capace di uccidere. Sfrutta Francesca come una facchina e nei confronti di Krista pratica un ostracismo sistemico e spietato.
Tár è consapevole di scegliere in base alle proprie fascinazioni ma in maniera ipocrita tenta di rimanere dentro i cardini dei ‘democratici‘ meccanismi orchestrali che disprezza, perché limitano la sua azione.

Infine, chiede a Olga di accompagnarla alla presentazione del suo libro fra un corteo di manifestanti indignati dal suicidio di Krista, quando avrebbe potuto benissimo chiederlo a Sharon; quella Sharon a cui sottrae tranquillanti (soffre di tachicardia) senza dirle niente: deve essere lei il ‘maschio forte‘ della famiglia. Come è vero che non le parla della denuncia ricevuta dai genitori di Krista, quasi temesse che una verità scomoda potesse saltare a galla.
Senza ombra di dubbio, questa ambiguità voluta da Todd, questo fare leva fra la dicotomia ‘personaggio reale-personaggio fittizio‘ e sfera sociale-mentale–sciamanica di una donna enigmatica dalle mille sfaccettature ha contribuito a un acceso dibattito fra il pubblico, sia per quanto riguarda l’intensa e mastodontica partitura musicale che fa da struttura ossea al film,
sia per l’importanza di alcune tematiche trattate (la differenza fra la produzione artistica e la condotta morale-sessuale dell’artista ad esempio, o il discorso fra la ricerca di un’identità bisognosa di etichette come Bipoc o U-Haul, utilizzate da uno studente e dalla stessa Tár, e il bisogno di annichilire il proprio ego, per servire la musica).

Lydia Tár
“Dovete sublimare voi stessi, il vostro ego e la vostra identità. Dovete stare davanti al pubblico e a Dio e, di fatto, annullare voi stessi”.

Alcuni indizi: Challenge di Vita-Sackville West e i tratteggi Shipibo-Conibo
Molti di voi si saranno chiesti, nel corso del film: “Perché Lydia getta nel bidone il libro che le viene dato in regalo da Krista (che appare solo di spalle, all’inizio, durante la conferenza, e poi in un’immagine internet dopo il suo suicidio, finché non diventerà una presenza fantasmagorica)? Qual è il titolo del libro e soprattutto che significato hanno quegli strani segni arabescati che troviamo un po’ ovunque nel corso della pellicola, disegnati da Krista, da Francesca e da Petra?
Partiamo con un dettaglio alla volta.
Il libro è Challenge di Vita Sackville-West, famosa amante di Virginia Woolf, ma non solo. In questo romanzo del 1920 Vita racconta la storia d’amore tra un giovane inglese, Julian, e la sua Eve. I due viaggiano in Grecia e si stabiliscono sull’isola immaginaria di Herakleion, dove diventano le figure centrali di una rivoluzione politica. Nel libro di West la donna protagonista, Eve, minaccia il suicidio dopo la separazione dall’amato.

Challenge in realtà riflette tutte le peripezie amorose intessute tra lei, Vita e la sua amante Violet Trefusis. Il libro era pronto per essere dato alle stampe ma, all’ultimo momento, l’autrice decise di ritirarlo perché temeva lo scandalo che avrebbe suscitato. Challenge quindi sarebbe rimasto inedito per oltre cinquant’anni, e il titolo significava proprio ‘sfida ad amare’: nonostante il dissenso che Sackville e Trefusis avevano suscitato all’epoca, abbandonando tutto e tutti, figli e mariti compresi per spendere il resto della vita insieme, in giro per il mondo, le due rimasero una coppia artistica notevole. Violet a sera leggeva assieme a Vita i passi del romanzo, suggerendo modifiche e ispirandola in qualità di musa.
Non a caso Krista aveva modificato la pagina Wikipedia di Lydia, sostenendo che lei fosse la sua musa.
E il suicidio in seguito alla separazione era un dettaglio già svelato.

Secondo indizio: gli arabeschi sul libro, sugli appunti di Francesca e nel pongo di Petra appartengono al patrimonio culturale degli Shipibo-Conibo, una tribù peruviana presso cui la Tár aveva sostato per ben cinque anni. Come leggiamo nella pagina riportata al link sovrastante, questi manufatti sono “prodotti quasi esclusivamente da donne; i motivi tribali caratterizzano la loro interconnessione con la natura, nella credenza che questi segni non siano creati, ma rivelati. La visione creativa è condivisa così dall’intera comunità, e la donna che inizia l’opera raramente sarà la stessa che la completerà“.
Non a caso Lydia sarà destituita dall”orchestra: non potrà completare l’opera, come non l’ha fatto Krista, come la Sackville con il suo Challenge o Francesca.

Una donna al vertice della catena patriarcale
Ho trovato molto curioso il fatto che Lydia Tár – sposata e convivente con il primo violino della sua orchestra Sharon (Nina Hoss), padre di Petra (così vuole definirsi nei confronti della figlia adottiva), U-Haul (ovvero donna lesbica con naturale inclinazione verso le relazioni impegnate) – che questa Lydia qui insomma così LGBTQ+ friendly diventi il ‘primo padre cattivo’ della catena alimentale-patriarcale sembra quasi un paradosso. Eppure è credibile, possibile.
Dalla regia di Todd capiamo che Lydia ama lasciarsi corteggiare e circondarsi delle donne che ritiene più attraenti e appetibili, stroncando invece senza riserve la carriera di chi non le va a genio. “Non è una democrazia. Non è che tutti possono dirigere tutti“, ripete più volte in merito al suo mestiere, suggerendo un attaccamento importante all’ ‘io faccio quello che mi pare, io detto le regole’ che sarà alla base della sua rovina, e alla base del malcontento delle persone incontrate durante il suo percorso, tanto ammaliate quanto offese.

Ma chi è veramente Lydia Tár?
Difficile a dirsi: una donna a tratti dolcissima e a tratti indisponente, sprezzante, senza cuore. Una donna gelida che va avanti a jogging, boxe e insalate di cetrioli, per poi svegliarsi nel cuore della notte in preda all’ansia, dopo conturbanti incubi erotici e allucinazioni uditive. Una donna che ficca la testa nel frigo mentre in casa tutte dormono in cerca di chissà quale risposta esistenziale, o forse in balia di sciamaniche premonizioni.
Ossessionata dal tempo e dalla libertà dalla forma, chiama ‘robot‘ tutti quelli che non sanno lasciarsi trasportare dalla condizione estatica della musica e chiedono costantemente spiegazioni (come il collega Eliot Kaplan, avido di rubarle delle informazioni su come migliorare la sua terza di Mahler), ma robot sono anche tutti quei giovani social dipendenti che si difendono dietro facili definizioni, come lo studente Bipoc (Black Indigenous People of Colour) che non ama Bach perché maschio bianco cisgender, a cui Tár rivolgerà la frase memorabile: “Non essere così bramoso di sentirti offeso” e poi una cosa come: “il narcisismo delle piccole differenze conduce alla più noiosa conformità”.
Alla fine, proprio Lydia finirà congelata dalla sua mania di controllo come dall’esperita assenza di controllo, dai piccoli sotterfugi, dai tradimenti e dalle omissioni all’apparenza distratte che porta avanti nella relazione con sua moglie. Sarà proprio l’assenza di sensibilità di Lydia in materia umana a sbriciolare il sogno per cui aveva tanto lottato sin da bambina. “Abbiamo a che fare con una donna che non conosce sé stessa”, ha sostenuto la Blanchett in merito alla sua interpretazione. Non a caso, il fratello della Tár, le ricorda: “Sembra che tu non sappia più né da dove vieni né dove stai andando Linda. O forse dovrei dire Lydia”.
Dopo essere stata buttata fuori di casa da sua moglie e dall’orchestra, Lydia-Linda rinuncia a Berlino, torna nella sua casa natale in America, per poi lanciarsi in una nuova avventura nelle Filippine, con lo scopo di ricominciare da capo. Dirigerà le musiche del videogioco Monster Hunter, alle spalle un pubblico di cosplayer vestiti con piume e cappelli da nativi. “Se avete paura di iniziare questa pericolosa nuova avventura, non esitate a tirarvi indietro, senza giudizio”.
E così si conclude un film che ho trovato maestoso, magnetico, disseminato di simboli e rimandi archetipici: è una partitura perfetta dove nessun dettaglio è casuale, dove ogni movimento presente trascina con sé l’attimo passato determinandone il futuro, in un gioco di spettri e di spiriti. Difficile quindi giudicare un personaggio come Lydia Tár che con la sua energia magnetica, i suoi istinti predatori e la passione per la musica ha costruito un impero. Un impero tuttavia fragile, perché Lydia è ignorante circa i meccanismi mediatici e giornalistici, le rivolte popolari, la sensibilità umana che va oltre la fama e il sublime annientamento di sé stessi nell’arte.
Lydia, forse fin troppo smembrata fra America del Nord, Europa e foresta Amazzonica, sembra non rendersi conto che là fuori il mondo chiede chiarezza, definizione; incurante del sublime e dell’estasi annichilente dell’atto artistico, la sensibilità umana si rivolta al deus ex machina che Lydia avrebbe voluto essere o trascendere.
Ma non sembra che Lydia non abbia, a modo suo, principi integri: continua infatti a servire la musica, assecondando i cambiamenti della vita, spostandosi continuamente fra culture emozioni e paesaggi differenti. Forse non era Berlino il luogo adatto a far tacere i terribili fantasmi che richiedevano di essere ‘ordinati‘. E forse questi fantasmi la perseguiteranno per molto tempo ancora. Ma tanto lei è un personaggio fittizio. Cate Blanchett, d’altro canto, confessa di essere molto stanca.