hip hop dance cover

Hip hop, rime e dissenso: la società ne ha ancora paura

Un breve Bignami di storia di uno dei generi musicali più controversi ed innovativi di sempre

di Mattia Mezzetti

La nascita del movimento Hip Hop

L’11 agosto 1973 fa caldo a New York. Il Bronx non è Manhattan e le opportunità di svago e festa sono limitate. I residenti del quartiere versano spesso in difficoltà economica ma sono giovani e – come i loro coetanei più benestanti – desiderano scarpe e vestiti nuovi. Come fare?

Perché non mettere assieme qualche dollaro divertendosi? Deve aver pensato qualcosa di questo genere Clive Cindy Campbell, nei primi giorni di quell’agosto di 49 anni fa.

Il ragazzo ha 18 anni. È nato a Giamaica ma poi ha seguito la famiglia in cerca di fortuna nella Grande Mela, senza mai smettere di ascoltare e fare musica. Nel vicinato lo conoscono già bene, con il nome di DJ Kool Herc.

Clive non sa ancora che quel simpatico nomignolo acquisirà la stessa importanza nel mondo della musica urban che il nome di Cristoforo Colombo ha per la storia. Quella sera nascerà il più importante movimento culturale giovanile che il mondo abbia mai conosciuto.

Diversamente da molti altri generi musicali e correnti culturali, l’hip hop ha una data di nascita precisa. La serata dell’11 agosto ’73 non è la prima occasione in cui si ascolti musica rap ma è quella in cui essa si trasfigura, passando da rumore per giovani ribelli a sonorità apprezzata da molti.

Cultura Hip Hop e musica rap

Chiamiamo le cose con il loro nome. I contenitori musicali, da Spotify a MTV, per scelta o per errore, utilizzano spesso le parole rap e hip hop come se fossero sinonimi. Non c’è nulla di più sbagliato.

Il rap è un genere musicale, padre della trap e figlio del soul e dell’R&B. L’hip hop è una cultura, un linguaggio espressivo che svalica i confini della musica. Esistono 5 pilastri della cultura hip hop: musica rap; turntablism ovvero l’arte del dj; graffiti e arte di strada; b-boying, ovvero la breakdance.

Queste quattro colonne sono già in grado di sostenere, da sole, la cupola dell’hip hop ma ogni mano ha 5 dita. Ai 4 valori già elencati si aggiunge l’importante – ma di più difficile definizione – concetto di knowledge, introdotto dal teorico dell’hip hop e rapper KRS-ONE. Tradurre la parola nell’italiano conoscenza ci aiuta fino a un certo punto. Si tratta di un ombrello che protegge la testa a tutti gli altri pilastri e li lega tra loro nel mindset che li accomuna.

La knowledge non è una skill, un’abilità come le precedenti quattro, bensì un orientamento di pensiero, una corrente comune da tramandare e rispettare. Fa sorridere leggere queste parole in un’epoca come la nostra, nella quale la cultura hip hop è stata sradicata dai quartieri dov’è nata per essere posta in vendita e mercificata al massimo. Eppure, in origine lo spirito era questo.

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Un ragazzo si esibisce nella breakdance, uno dei pilastri della cultura hip hop. Foto: Piqsels.

L’evoluzione dell’hip hop

Negli anni’70 il rap è voce di sfida ed espressione della ribellione di comunità piuttosto contenute, ovvero gli afroamericani che vivono nei ghetti urbani di un’America profondamente razzista. Ciò non significa che i bianchi lo snobbino, semplicemente continuano a preferirgli altri generi musicali.

Chi ha orecchio allenato e fiuto per gli affari, intuisce presto il potenziale sopito. Lo fanno sia alcuni discografici sia Debbie Harry, frontwoman dei Blondie, lontanissima dal vissuto quotidiano degli afroamericani del Bronx, la quale si innamora di quel sound nuovo, potentissimo, e esce con Rapture, un pezzo bianco eppure ricco di sonorità rhytm and poetry – da cui l’acronimo rap – nel 1981, contribuendo non poco alla diffusione di questa musica tra fan del rock e della disco.

Hip hop: La voce del dissenso

Gli anni ’80 segnano la maturazione dell’hip hop. Le canzoni diventano invettive, i concerti comizi, la politica e la denuncia sociale irrompono sulla scena, Public Enemy No. 1 segnerà il debutto di quello che MTV ha definito il miglior gruppo rap di tutti i tempi.

I Public Enemy segnano un’epoca. Principi della golden age dell’hip hop, l’importanza del gruppo è tale che possiamo parlare di un rap game prima dei Public e un altro dopo i Public.

Gli anni ’80 saranno dominati dalla band e la loro influenza culturale sarà innegabile. Poi, nei primi anni ’90, giungerà l’inevitabile declino. La loro impronta resterà comunque indelebile e i Public Enemy si guadgneranno stima e consenso da una parte, odio e disprezzo dall’altra. I loro fan proverranno principalmente dalla gioventù afroamericana, mentre i detrattori dall’establishment prettamente bianco del potere statunitense.

Quello che avveniva negli USA è molto simile a quel che sta avvenendo oggi, soprattutto in Paesi politicamente più arretrati e alle prese con una complicata transizione, verso una democrazia almeno di facciata. Pensiamo, ad esempio, a quante similitudini vi siano tra il Bronx degli anni ’80 e L’Avana di oggi.

I perseguitati dell’Hip Hop

Negli ultimi 50 anni musica rap e cultura hip hop sono divenuti – per la gioia dei produttori e la rabbia dei puristi – una corrente dominante, abbastanza lontana dalle sue caratteristiche iniziali. Non ci stupisce vedere rapper, sebbene poco conosciuti, riscuotere enorme successo con le loro canzoni, anche le più provocatorie e volgari.

L’hip hop è divenuto un fenomeno culturale tra i più importanti a livello mondiale: Non sono pochi i sociologhi che lo definiscono il principale movimento culturale giovanile dell’ultimo secolo, dal momento che ha significato moltissimo anche all’infuori della sfera prettamente musicale: abiti, accessori, modi di esprimersi e parlare… moltissimi elementi sono stati ispirati dall’hip hop.

Se nel mondo che definiamo occidentale conviviamo ormai da tempo con la musica e lo stile figli di questa cultura, ad altre latitudini non è proprio la stessa cosa. Tutt’altro.

Vi sono alcuni Paesi dove la musica rap è sinonimo di insubordinazione e ribellione e gli artisti che la producono sono intimoriti e incarcerati. È il caso, ad esempio, di uno Stato in cui esiste un movimento hip hop fecondissimo come l’isola di Cuba.

Rapper imbavagliati

I dati di Freemuse, ONG internazionale che si occupa di dare voce agli artisti perseguitati in tutto il mondo, testimoniano come dal 2018 – anno in cui l’organizzazione ha cominciato a documentare censure e arresti ai danni di rapper – Cuba è il Paese nel quale gli artisti più spesso si sono visti negare la propria libertà d’espressione. Subito dopo troviamo la Russia.

“Osserviamo un trend globale di attacchi ai danni della musica rap, non è una cosa passeggera. I testi rap sono usati come prova, su basi legali piuttosto esili. È già successo con altri generi musicali, ora i casi si stanno moltiplicando.”

È serio Gerd Elmark, direttore esecutivo di Freemuse, nell’intervista rilasciata a Rolling Stone. Poi aggiunge:

“L’idea che un testo rap possa contenere informazioni utili alla polizia rappresenta un fatto preoccupante. Lo stesso vale per la quantità di arresti, detenzioni e custodie cautelari in continuo aumento”

Gli arresti dei rapper non avvengono soltanto nei Paesi meno democratici, con forme di governo autoritarie e nelle quali viene tendenzialmente ostacolata la libertà di espressione. Oltre a Cuba, ricordiamo la Cambogia, ove nel 2020 una coppia di rapper è stata incarcerata perché colpevole di criticare il governo con le rime o ancora la Russia, Paese nel quale è finito in prigione il rapper Husky, a lungo minacciato dalle autorità per il contenuto dei suoi testi.

In Brasile, Rosa Luz, rapper nera e transessuale nonché attivista per la comunità LGBTQ+, ha ricevuto minacce di morte online, spregevoli e ripetute, dopo aver apertamente criticato, nei suoi testi, il discusso presidente Bolsonaro. Parliamo naturalmente di latitudini dove la libertà è limitata, quando non negata, a numerose falde della società e a svariati artisti. Anche in Occidente, però, osserviamo strumentalizzazioni e forzature per danneggiare il rap e la cultura hip hop.

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Un rapper si esibisce in freestyle in strada. Foto di Anna Pou da Pexels.

Londra e Los Angeles: quando l’hip hop va a processo

La musica rap è oggi il genere più popolare negli USA e ha percorso molta strada da quando era una forma espressiva per giovani afroamericani nei ghetti urbani. Ciononostante, alcuni la considerano ancora una musica per emarginati che abusano delle droghe, maltrattano le donne e influenzano negativamente i giovani con il loro linguaggio e stile di vita. Il rapper è per molti un indecente, specialmente se scrive testi particolarmente spinti.

Prendiamo il caso di Skengdo e AM, due rapper londinesi indagati in alcuni crimini legati al mondo delle gang nella capitale britannica. Al processo contro di loro, l’accusa ha citato il contenuto dei loro testi e le performance sui social. Gli artisti hanno subito una condanna a nove mesi, poi sospesa.

Drakeo The Ruler, rapper californiano, ha vissuto sulla sua pelle la supponenza delle forze dell’ordine. In un processo per omicidio nel quale era coinvolto, data l’insufficienza delle prove, l’accusa ha portato in tribunale la sua musica, sostenendo che il rapper fosse il leader di una gang criminale. Nei suoi versi, in realtà, Drakeo parlava della sua crew, ovvero altri rapper che utilizzano il nome del più famoso nel gruppo per farsi pubblicità e avere maggiori opportunità.

Erik Nielson è co-autore di un testo intitolato Rap on Trial: Race, Lyrics and Guilt in America. Il volume mette in luce quanto sia facile per un rapper statunitense – fatte salve forse soltanto le superstar mondiali – venire giudicato in funzione della sua arte. Le forze dell’ordine americane hanno utilizzato testi rap come prova in tribunale decine e decine di volte. Con gli altri generi non avviene lo stesso.

“Il rap è particolarmente colpito perché mobilita la gente, spesso è usato come musica di protesta. Discriminazione razziale, crisi politiche, corruzione, leader inadatti: il rap esprime dissenso su come è governata la società. È per questo che i rapper vengono malvisti.”

Ha affermato Jasmina Lazović, research manager di Freemuse, colpendo nel segno. La ragione per la quale si tende a colpevolizzare, spesso in maniera pregiudizievole, il rap e l’hip hop è proprio questa: questi artisti sono scomodi e toglier loro la possibilità di parlare serve a molti regimi o governi che desiderano tutelare lo status quo per il proprio tornaconto.

Lampante, a questo proposito, è la vicenda di Pablo Hasél. Si tratta di un rapper catalano indipendentista, arrestato a febbraio 2021 perché accusato di sovvenzionare gruppi terroristici con le sue rime nonché di offendere la monarchia spagnola.

Il suo rilascio è stato richiesto, per iscritto, da oltre 200 artisti spagnoli. Tutti si sono detti convinti, come Freemuse, che il musicista sia finito dietro le sbarre per il suo vivo sostegno alla causa catalana, non per essere un complice dell’ETA o dei terroristi maoisti del GRAPO.

Madrid non ha trovato prove schiaccianti e si è basata, nel giustificare il fermo, sui testi del rapper, il quale a loro avviso si rende un criminale perché scrive testi duri e racconta violenze.

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