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La colpa di essere ‘strani frutti’
Il caldo è torrido in quella notte d’agosto a Marion, Indiana. Le mura della prigione trasudano paura e rassegnazione. Due uomini, due ragazzi, in verità, sono distesi sulle loro brande. I loro nomi sono Thomas Shipp e Abram Smith. I ragazzi fissano il soffitto in cerca di risposte, ma trovano solo domande, una serie infinita di domande. Intanto, davanti al carcere, si sta radunando un piccolo gruppo di uomini, un gruppo che pian piano inizia a diventare sempre più grande. Questi uomini hanno tutti una cosa in comune: sono bianchi. Munita di torce, picconi, spranghe e funi, quella mandria delirante reclama i giovani corpi distesi sulle brande.
La folla è ormai una marea incontenibile, chiama a gran voce i nomi dei due. I ragazzi sentono che fuori sta montando un’onda incontrollabile di rabbia nei loro confronti. Si stringono, forse pregano, consapevoli del loro destino.
Thomas e Abram sono accusati di omicidio e stupro, ma non è quella la colpa che dovranno espiare: pagheranno perché sono neri. A un certo punto, la furia della folla irrompe oltre i cancelli del carcere. Le guardie non riescono a fermare tanto impeto oppure non vogliono. Thomas e Abram vengono prelevati da una marea di mani furenti. Quello che segue è un linciaggio barbaro e violento ai danni dei due ragazzi. Insieme a loro, viene prelevato e trascinato per le strade di Marion un terzo uomo, James Cameron. Per lui il destino sarà più clemente.
A un certo punto, infatti, dalla folla si leva la voce di una donna che lo proclama innocente. Questo basta a salvarlo dalle mani omicide che lo stavano picchiando. James è salvo, ma chiaramente quella notte lacera per sempre la sua vita. Negli anni a venire Cameron si dedica alla lotta per i diritti degli afroamericani e nel 1988 fonda l’America’s Black Holocaust Museum.
Per gli altri due ragazzi non c’è più nulla da fare. Abram muore per le percosse e comunque non gli viene risparmiata l’impiccagione. Thomas, con gli occhi tumefatti, viene sollevato per raggiungere il suo amico appeso al ramo di quel grande albero. Il ragazzo si aggrappa alla vita, cerca di liberarsi. Ma quell’atto di ribellione gli costa caro. La furia informe della massa lo tira giù dall’albero, gli spezza le braccia e un urlo agghiacciante squarcia la notte. È il 7 agosto 1930. Due strani frutti, mai dichiarati colpevoli dei crimini imputati, ondeggiano inerti al vento del Sud.

Dalle strade di Marion al Greenwich Village
Anni più tardi, una ragazza dalla pelle nera e una voce graffiante intona un canto. La canzone parla di uno strano frutto sui rami degli alberi del Sud. Siamo nel 1939, la ragazza si chiama Billie Holiday. Billie ha già provato sulla propria pelle gli orrori del razzismo, ma nonostante tutto è riuscita ad avere successo. Nel 1939 è già una cantante con una discreta fama. Una sera decide di chiudere la sua esibizione al Cafè Society presso il Greenwich Village con una canzone intitolata, appunto, ‘Strange fruit’.
Il testo è forte e forte è la commozione della ragazza nel cantarla. Il pubblico è stordito. Lentamente partono i primi applausi e ben presto tutti gli spettatori si uniscono in un’ovazione. Come dichiarerà la stessa Holiday nella sua biografia:
“Questa canzone aiuta a distinguere
le persone a posto
dagli idioti e dai cretini”
‘Strange fruit’ diventa il brano di chiusura di ogni esibizione della Holiday. Le luci si spengono, i camerieri si fermano e un timido faretto illumina il viso addolorato della cantante. Ben presto questo testo porterà la giovane Billie al successo e all’affermazione sul piano artistico nazionale e internazionale. La giovane cantante non è però l’autrice del testo, sebbene dichiari il contrario nella sua biografia. Il testo viene infatti redatto da un insegnante ebreo-russo del Bronx, Abel Meeropol. Abel ha una spiccata sensibilità, fa parte del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America e soffre tutte le ingiustizie perpetrate ai danni dei più deboli.
Un giorno si imbatte nella foto scattata da Lawrence Beitler che ritrae i corpi appesi di Thomas Shipp e Abram Smith. Un dolore profondo lo colpisce al petto tanto che non riuscirà a dormire per svariate notti. All’inizio Abel scrive una poesia che poi verrà trasformata nel testo di una canzone. ‘Strange fruit’ diventa una dichiarazione di guerra contro la violazione dei diritti umani, in particolare quelli degli afroamericani.
Scenari da caccia alle streghe
Si stima che tra il 1889 e il 1940 negli Stati Uniti vengono linciate circa 3833 persone delle quali l’80% è afroamericano. Nel 1939, anno di uscita di ‘Strange fruit’, viene condotta un’indagine che rivela che 6 bianchi su 10 sono d’accordo con la pratica del linciaggio. Volendo essere ottimisti, si potrebbe pensare che questa situazione di estrema discriminazione e razzismo nei confronti dei neri sia ormai una questione del passato, una roba che ci siamo lasciati alle spalle ormai da tempo. Ma lasciate che vi racconti un’altra storia.
È il 25 maggio 2020, George Floyd, un uomo di colore di 46 anni, viene bloccato con un ginocchio sul collo da un ufficiale di polizia. Dopo nove minuti di agonia, l’uomo muore, lasciando la popolazione di Minneapolis e del resto del mondo senza parole. La morte di George è solo l’apice di una serie di atti discriminatori e terribilmente violenti contro la popolazione afroamericana.

Dal 1939 ai giorni nostri, gli Stati Uniti d’America non sono migliorati molto sotto il profilo del razzismo. Breonna Taylor, Ahmaud Arbery, Trayvon Martin sono solo alcuni degli afroamericani uccisi per mano delle forze dell’ordine statunitensi o da altri cittadini armati. Nonostante gli appelli di Amnesty International, gli Stati Uniti non riescono a guarire dalla loro paura del diverso. Quello che viene da chiedersi è come affronterà le sfide del futuro uno dei Paesi più potenti del mondo, se a mala pena sa prendersi cura dei propri cittadini? E, soprattutto, quanti strani frutti dovranno ancora crescere su quegli alberi perché l’America si redima dal suo passato violento e discriminatorio?
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