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Iniziamo dallo spelling: per quanto possa apparire strano, tutto si gioca in una sola lettera; la s finale.
L’afrobeat è una musica tradizionalmente africana, figlia dell’arte di Fela Kuti – una delle principali star nigeriane – e ormai dimenticata e nota principalmente ai nostalgici o a chi ha una certa età. Nel continente più giovane del mondo, però, sono piuttosto proiettati in avanti e la musica che va per la maggiore, oggi, ha la s alla fine e si chiama afrobeats. Essa ha ben poco in comune con quella di Kuti, all’infuori della radice etimologica, anche perché l’artista è venuto a mancare nel 1997.
La nascita del termine Afrobeats
Tra i massimi esperti mondiali di musica e cultura afrobeats troviamo il giornalista culturale nigeriano, Bolaji Alonge. Nativo di Lagos ed estremamente poliedrico, Alonge è anche fotografo e attore di successo.
“Afrobeats scritto con la s è una combinazione di diversi generi che sono cresciuti e si sono sviluppati e poi fusi negli ultimi decenni. Dall’highlife e dal reggae sono nati l’Afrofunk, l’Afrohouse e la musica Afropolita e oggi ci riferiamo a tutte con il termine Afrobeats.”

Ha rivelato alla rivista Deutsche Welle. Tipicamente si fa risalire la nascita del termine a una catalogazione europea, figlia dell’inventiva di alcuni dj africani trapiantati a Londra che cercavano un termine per descrivere – e poter dunque vendere – la propria musica.
Eravamo nei primi anni 2000 e, fino ad allora, quella musica era inserita sotto il termine ombrello World Music, che come sappiamo può voler dire tutto oppure nulla. Poi i giovani africani coinvolti nella cosiddetta diaspora, ossia che si spostavano dal continente nero in cerca di fortuna, si resero strumenti di export musicale, portando suoni e ritmi nuovi in Occidente.
Dalla Nigeria e dal cuore dell’Africa, l’Afrobeats è giunto dapprima in Europa e poi è atterrato negli States. L’interesse del pubblico, principalmente giovane, verso questo genere è assodato e i performer africani sono ormai celebri ovunque. L’Afrobeats non si nasconde più.
Le star dell’Afrobeats
Il groove afrobeats vola sulle ali di artisti che sono ormai superstar della musica.
Wizkid ha messo assieme oltre 67 milioni di visualizzazioni – soltanto su YouTube – del suo tormentone estivo “Essence“; Burna Boy è ospite abituale nei featuring di rapper e popstar; quando parte il remix di “Fall“, la hit di Davido, vengono giù le discoteche di mezzo mondo, mentre le sonorità meno dirompenti e squisitamente afropolite di Yemi Alade sono preziose perle da tenere negli scrigni dei propri cellulari, se salviamo ancora i file delle canzoni, o corredare con il cuore dei preferiti su Spotify.
Dalla Nigeria si è alzato un gigante dormiente che ha attraversato oceani e continenti. I ritmi e i suoni africani non sono mai stati sopiti, semplicemente facevano fatica ad allontanarsi dai luoghi dove sono nati. Oggigiorno, è tutto più semplice con il mondo a portata di click. Creatività, arte, talento e voglia di ballare sono giunti fino ai dancefloor di Los Angeles, dopo aver rumorosamente lasciato quelli di Lagos.
Generi e tecniche dell’afrobeats
Il termine afrobeats, come si scriveva, è nato per esigenze di marketing. Era infatti necessario un nome avvincente per commercializzare questi nuovi suoni e si optò per questa denominazione musicalmente non precisissima ma estremamente attrattiva da un punto di vista commerciale.
La comunità che oggi denominiamo afrobeats è germogliata da un’ecosistema creativo di giovani artisti, stanchi di aderire a generi prestabiliti e restarne etichettati per l’intera carriera. Per questi performer la fluidità era tutto e spaziavano dall’hip-hop al funk, lasciandosi influenzare dal reggae e il rock indipendente. Le norme di genere erano malviste da questi ragazzi, troppo severe e rigide. Come molti esponenti musicali fanno con le regole all’inizio della loro storia, anche i pionieri dell’afrobeats scelsero di infrangerle.
La miccia del successo si accese grazie agli emigrati coinvolti nella diaspora. La freschezza e l’audacia dei temi proposti, così nuovi e lontani dall’immobilismo conservatore della cultura musicale di alcuni Stati africani, dove sono le sonorità tradizionali ad andare per la maggiore, hanno subito conquistato quei giovani già attratti da ritmi provenienti dall’occidente, i quali sono stati tutti sapientemente assorbiti dall’universo afrobeats.
Le tecniche di questo genere e il frullato di stili che lo caratterizzano si distaccano dal mood esotico fine a sé stesso che ha tipicamente sempre caratterizzato la musica proveniente dal continente nero, nella quale si miscelavano suoni assolutamente giocosi ma sempre poco familiari alle orecchie non indigene, tanto da essere fin troppo riconoscibili.
Nell’afrobeats l’identità africana non si smarrisce ma viene diluita, dando origine a un paesaggio di ritmi infiniti, melodie coloratissime e suoni capaci di stupire tanto per le produzioni calcolate al millimetro – tipicamente occidentali, cifra stilista dei dischi delle major statunitensi ed europee – quanto per il coraggio delle espressioni vocali, indubbiamente ispirate – per così dire – ad altri generi ma al contempo esperienze uniche e originali.
Il movimento afrobeats: inclusione o ribellione?
I canali d’azione europea dell’afrobeats sono gli stessi che hanno diffuso il reggae. Se la capitale musicale d’Europa, Londra, sul finire degli anni’90 e i primi 2000 era ancora profondamente influenzata dai suoni caraibici figli dei migranti di seconda generazione, nelle ultime due decadi la digitalizzazione mondiale della musica africana ha portato il genere a stabilirsi da queste parti a causa della massiccia immigrazione di giovani e dell’apertura di numerose emittenti radio dedicate all’afrobeats.
La musica afrobeats definisce anche la generazione di questi ragazzi, fisicamente lontani dalla loro terra ma spiritualmente e culturalmente molto vicini a essa, che fanno comunità e sviluppano appartenenza anche grazie alla musica. Anche in Italia vediamo sempre più iniziative dedicate alle comunità africane, le quali spesso sono davvero ben integrate nel nostro tessuto sociale.
Che il movimento afrobeats sia controcolonizzatore, come qualcuno afferma, è forse un’esagerazione. Questa musica e la community che le si è creata attorno, però, vogliono apertamente porsi come una corrente che metta in mostro l’orgoglio africano, permettendo a esso di farsi apprezzare e riconoscere anche in Occidente.
Come la maggior parte dei barbari non voleva la caduta dell’Impero Romano, bensì desiderava soltanto esserne parte, anche l’afrobeats vuole, con ogni probabilità, essere uno strumento per dare un posto all’Africa nell’universo patinato dello show business. I barbari finirono per sgretolare lo status quo dell’epoca e diedero inizio a un mondo nuovo rispetto a quello dell’egemonia romana. Chissà se l’afrobeats avrà un impatto paragonabile nella musica.
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