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Una guerra fratricida nei Balcani
Aprile è il mese in cui iniziano le danze della primavera. I fiori timidi fanno capolino sugli alberi preannunciando l’arrivo della bella stagione. Ma a Sarajevo l’aria è pungente, la coda lunga del rigido inverno orientale graffia ancora i volti dei bambini. Il freddo, però, non è la sola preoccupazione dei cittadini della neonata repubblica di Bosnia ed Erzegovina. La guerra è dietro l’angolo. Ma facciamo un piccolo passo indietro. Vorrei spiegare quello che successe con parole semplici, purtroppo però, spiegare una guerra non è mai semplice.
Proverò quantomeno a essere chiara e concisa. La Jugoslavia, letteralmente ‘terra degli Slavi del Sud‘, nata dopo la prima guerra mondiale, inizia a sfaldarsi nel 1990 quando la Slovenia dichiara la propria indipendenza, seguita dalla Croazia, dalla Macedonia e dalla Bosnia. Il quadro geopolitico è molto complesso. La multiculturalità e la forte mescolanza etnica e religiosa rendono inevitabile la coesistenza di prospettive e visioni del futuro parecchio differenti tra loro.

L’appartenenza ai vari gruppi etnici è fortemente sentita e questo ben presto porta all’insorgere di voci indipendentiste che trovano la loro concreta realizzazione nella costituzione di diverse repubbliche autonome. In questo contesto, nel marzo 1992 la multietnica Bosnia-Erzegovina dichiara la propria indipendenza e sceglie Sarajevo come capitale. Circa un mese dopo, l’esercito serbo-croato inizia l’assedio della città, uno dei più duraturi della storia: quattro lunghi anni di fame e miseria.
Durante questo periodo gli abitanti di Sarajevo cercano tra le macerie qualche ricordo della vita prima della guerra, il ricordo di un passato fatto di cose semplici come un libro lasciato sul comò dalla sera precedente, un rossetto, lo zaino di un bambino, qualcosa che la furia dei mortai non abbia spazzato via. Ci si attacca a ogni piccola cosa, pur di restare umani.
Diciassette anni sono troppo pochi per morire
In una Sarajevo dilaniata dalle bombe vive una ragazza. Il suo nome è Inela Nogić, ha diciassette anni. È magra e bionda. La guerra non ha però intaccato la sua bellezza, nonostante gli occhi siano stanchi, di una stanchezza profonda che solo la guerra sa portare. Quella guerra, a Inela, sta portando via la giovinezza insieme a tutti i suoi sogni. Eppure la vita va avanti, si cerca disperatamente la normalità. Un giorno la ragazza viene iscritta da sua mamma a un concorso di bellezza: che idea folle nel bel mezzo di una città sotto assedio!
Eppure Inela accetta di partecipare, supportata dagli amici. Il 29 maggio 1993 la futura miss Sarajevo gareggia con altre sedici ragazze per aggiudicarsi il titolo di reginetta della città. Lo scenario non è dei migliori: le giovani sfilano sulla passerella del teatro sotterraneo del Centro culturale bosniaco. Tutto è organizzato con mezzi di fortuna. I trucchi, merce rara, passano di mano in mano. Molte delle partecipanti hanno ferite di guerra sulle gambe e tutte sono inevitabilmente segnate dall’assedio che va avanti da già oltre un anno. Sullo sfondo di una Sarajevo distrutta dai bombardamenti, la Nogić viene eletta miss Sarajevo.

Nessuna corona a imbellire la sua testa, solo uno striscione che recita “Don’t let them kill us“. La scena fa il giro dei telegiornali d’Europa. Molti non capiscono perché si sia scelto di organizzare un concorso di bellezza nel cuore di una città dilaniata. Qual è il senso di esibire qualche bella ragazza in cambio di un po’ di attenzione in una situazione del genere? Perché tanta leggerezza? Eppure la leggerezza è l’ancora di salvataggio di una città che non si arrende.
La leggerezza è per Sarajevo l’arma migliore contro l’orrore della guerra. I ragazzi non smettono di andare all’università, che continua a rimanere aperta. Il settore culturale è più vivo che mai: in questo contesto nasce il celebre Sarajevo Film Festival. La gente continua ad andare a lavoro e a curarsi come può. Insomma si cerca di vivere una vita il più normale possibile, anche se la parola è totalmente fuori contesto perché nulla è più come prima. Quando tutto sembra perduto la bellezza sembra ridare speranza. E il sorriso di Inela Nogić, tra il fumo delle macerie, è più splendente che mai.
Dalle strade di Sarajevo agli U2
In quegli stessi giorni per le strade di Sarajevo gira un ragazzo. Il suo nome è Bill Carter, è un giornalista ed è arrivato a portare aiuti umanitari. Solo che, a causa dell’inasprirsi del conflitto, è costretto a rimanere a Sarajevo per ben 15 mesi. Le condizioni di vita sono pessime. Bill abita in un palazzo semidistrutto con scarso cibo e poca acqua.
Nel tempo libero gira un documentario raccogliendo testimonianze dalla città assediata, compresa l’organizzazione di Miss Sarajevo. Ma quel giovane giornalista sente che ciò che sta facendo non è abbastanza. Allora prova a contattare Bono degli U2, che sta portando la sua tournée, Zoo tv tour, in giro per l’Europa. Il frontman della band apprezza molto il documentario e decide anche di scriverci una canzone, ‘Miss Sarajevo‘, appunto.
Le immagini girate da Bill Carter vengono diffuse su maxischermo durante i concerti degli U2 e il mondo viene a conoscenza dell’orrore della guerra dei Balcani che fino a quel momento aveva quasi ignorato. ‘Miss Sarajevo’ è l’unico singolo estratto da ‘Original Soundtracks 1‘, un album registrato dagli U2 e da Brian Eno, sotto lo pseudonimo di Passengers.
Una parte della canzone è cantata da Luciano Pavarotti, nel suo stile lirico. Miss Sarajevo viene eseguita per la prima volta dal vivo a Modena nel 1995 durante il Pavarotti & Friends. L’ultima parte della canzone recita le parole dell’Himna slobodi, l’inno alla libertà composto nel diciassettesimo secolo da Ivan Gundulic. Durante uno dei concerti del Vertigo tour, precisamente quello di Milano del 21 luglio 2005, gli U2 dichiarano:
“We would like to turn our song into a prayer,
and the prayer is that we won’t become a monster
in order to defeat a monster.
That’s our prayer tonight”
La storia si ripete
Ora senza volere addentrarsi in analisi geopolitiche che non mi competono, è chiaro che la storia di questa canzone ci fa pensare ai fatti che stanno accadendo nel cuore d’Europa in questi giorni. Come ho detto prima, raccontare una guerra non è cosa semplice, ma ciò di cui sono sicura è che la normalità è la prima cosa a essere sacrificata. Un paio di giorni fa mi sono imbattuta in una lista di beni da poter donare alla popolazione ucraina attraverso un’associazione umanitaria. Tra gli assorbenti, il cibo in scatola e le garze mediche, mi è saltata agli occhi una voce: Nutella.
Lì per lì sono rimasta abbastanza sorpresa dalla richiesta. A cosa può servire un barattolo di crema alle nocciole durante un conflitto armato? Poi mi sono fermata a pensare: donare la Nutella è come donare un briciolo di normalità, un momento di quotidiano tra le atrocità delle bombe e una vita sconvolta da un giorno all’altro. Ancora una volta usiamo la leggerezza per esorcizzare l’orrore e la paura, in attesa che, come tutti noi di WMH ci auguriamo, la parola ‘guerra’ scompaia dai nostri vocabolari.
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