Oltre l’ascolto c’è di più
Le copertine non passano mai di moda. Anche nell’era del digitale, e soprattutto per gli appassionati del vintage, il disco in vinile continua ad essere una sorta di totem prezioso da ammirare e custodire.
A detta di molti, è proprio il “pre-musica” il bello dei vinili: quella manciata di minuti necessaria all’ascolto di un disco è essa stessa un momento di piacere, un momento in cui si rallenta e si assapora l’attimo.
Prima dell’ascolto però, prendere tra le mani un vinile significa una cosa innanzitutto: guardarne la copertina.
Questa ci può colpire a prescindere dal genere e dal tipo di musica, ed è anche successo che in alcuni casi proprio la copertina abbia fatto la fortuna di alcuni album. Il legame tra musica e arte ha infatti prodotto alcune delle opere più iconiche della storia, fissandole per sempre nella memoria collettiva: basti pensare agli album dei Pink Floyd, Beatles o di Bruce Springsteen.
Eppure, fino a gli anni 30 nel novecento, il concetto di “copertina” nemmeno esisteva, e i dischi venivano venduti in semplici buste di cartone, monocromatiche e senza testo.
É solo nel 1939 che Alex Steinweiss, un graphic designer americano, firma la prima copertina del disco “Smash Songs Hits” di Rodgers e Hart, by Columbia Records.
Da lì in poi, il resto è storia.
Quando si è iniziato a “guardare la musica”

Volevo andare oltre ciò per cui venivo pagato.
Volevo che le persone guardassero l’illustrazione e ascoltassero la musica– Alex Steinweiss
…ed è per questo che nasce la prima copertina della storia.
La Columbia Records però non era convinta. Perché spendere di più per qualcosa che non aggiunge un valore effettivo al disco?
La risposta arriva subito con gli incassi della raccolta e si avvalora con i seguenti dischi: Rhapsody in Blue di George Gershwin e Concerto per pianoforte e orchestra n°5 di Beethoven – sempre firmati da Steinweiss.
Successivamente, con l’uscita dei nuovi 33 giri l’ascolto della musica cambia. Arrivano i primi album e non si tratta più semplici raccolte di singoli, come per i 45 giri, bensì di veri e propri laboratori di sperimentazione, sia musicale che artistica.
Più musica vuole dire più creatività, e questo si riflette anche nelle copertine. Da quel momento, nasce un nuovo tipo di arte, prodotta da artisti innovativi, eclettici e spesso, rivoluzionari.
Letteralmente “Metterci la faccia”
Un illustratore, un batterista e un chitarrista vanno a vivere insieme. Sembra l’inizio di una bella storia, no?
Nel 1966 Klaus Voormann, illustratore tedesco, si trasferisce in un appartamento insieme a George Harrison e Ringo Starr. Dopo qualche tempo un amico dei due, un certo John Lennon, chiede a Klaus di realizzare una copertina per il loro prossimo album e, così, dopo qualche visita agli studi di Abbey Road, nasce uno degli artwork più famosi della musica: la copertina di Revolver, dei Beatles.

I volti dei quattro bravi ragazzi disegnati con inchiostro nero si alternano a ritagli di giornale e pezzi di fotografie scattate da Bob Whitaker.
Il compenso di Voormann, è di sole 50 sterline.
Ad ispirare il lavoro è in particolare una canzone, Tomorrow Never Knows, un brano che a detta dell’artista “era diversissimo dai primi Beatles, tanto che all’epoca pensavo: un tipico fan dei Fab Four non comprerà mai questo disco”.
Ma le aspettative di Klaus prendono tutt’altra piega e nel giro di poco, l’album si classifica come uno dei dischi più importanti della musica, 3° nella classifica dei 500 migliori album secondo la rivista Rolling Stone.

Metterci la faccia a quanto pare ripaga, e chi ne fa tesoro è un artista australiano che si chiama Martin Sharp, autore di una delle copertine più iconiche del rock anni ’60, quella di Disraeli Gears dei Cream.
Trattasi di un collage: colori fluo, stampe psichedeliche e le fotografie dei volti di Clapton, Baker e Bruce – anche queste scattate da B. Whitaker.
Questa diventa una delle opere più conosciute di Sharp. Un qualcosa che a suo parere doveva riprodurre visivamente il caldo suono elettrico dei Cream.
Che dire, missione compiuta Martin!
Fumettisti allo sbaraglio
A prima vista Janis Joplin e i Green Day non sembrano avere nulla in comune, eppure due delle loro copertine più famose hanno un non so che di simile.
Entrambe, infatti, hanno molto da raccontare e sono letteralmente, fumetti.
Per Cheap Thrills l’idea originale era quella di scattare una foto alla band, tutti nudi. Inutile dire che la cosa viene bocciata e così, Janis Joplin, l’allora cantante dei Big Brothers & The Holding Company, raccoglie alcuni suoi disegni psichedelici e li consegna al suo amico e fumettista Robert Crumb.
Nel giro di una notte nasce un fumetto, una serie di riquadri che illustra i brani del disco con protagonista Janis.
Una vera e propria storia. Il racconto di un album che, all’inizio, doveva chiamarsi Sex, Dope and Cheap Thrills (un po’ too much per l’epoca).


Anche i Green Day, con l’aiuto di Richie Bucher, pubblicano una copertina-fumetto per l’album Dookie, nel 1993.
L’opera nasce in tempi brevi guidata dall’ improvvisazione e la satira di Bucher.
L’eclettico artista rappresenta i luoghi da dove provengono i Green Day insieme a molte figure retoriche, simboli e cantanti famosi come Ozzy Osbourn, Elvis e Patti Smith.
Il risultato è un’immagine caotica e ricca di dettagli da scoprire.
Copertine da museo
Di tutt’altro genere è invece la copertina dei King Crimson, quella del 1969 per l’album In The court of the Crimson King, l’album che è ritenuto il manifesto del progressive rock.
L’autore dell’opera però non è un artista o un designer.
Si tratta infatti di Barry Godber, un amico di Peter Sinfield, che di lavoro fa il programmatore.

Come racconta il chitarrista del gruppo Robert Fripp:
La faccia urlante all’esterno era quella dell’uomo schizoide del ventunesimo secolo, mentre all’interno c’era quella del Re Cremisi.
Barry aveva catturato perfettamente la nostra musica.
Questo giovane e inaspettato talento, però, purtroppo muore improvvisamente a causa di un infarto nel 1970 a soli 24 anni (troppo giovane persino per il fatidico club dei 27), lasciando come eredità alle generazioni future di rockers, queste due opere, le uniche.
Com’è ormai chiaro, a partire da quel primo disco venduto con la copertina nel 1939, migliaia di album si sono susseguiti corredati da abiti confezionati ad hoc. Non sorprende quindi che tra le varie copertine ci siano dei veri e propri capolavori d’autore, alcuni dei quali si sono guadagnati un posto d’onore nella memoria di molti di noi, e nella storia dell’arte.
Per esempio, a proposito di autori celebri, nel 1955, nientepopodimeno che Salvador Dalì, produce l’illustrazione per la copertina dell’album Lonesome Echo, di Jackie Gleason.

Si scorgono subito le caratteristiche tipiche dell’arte di Dalì: a primo impatto si percepiscono l’angoscia e la solitudine, la fragilità di una farfalla e la sua stessa ombra. Poi, osservando bene, si avverte un elemento femminile che come spiega l’artista “forma un triangolo perfetto con l’elemento musicale” – il mandolino.
Una vera e propria opera d’arte in pieno stile surrealista, donata al grande pubblico sotto forma di copertina, ormai più di sessant’ anni fa.
Ma tornando agli anni ’60, c’è un artista che davvero non si può dimenticare. Un uomo poliedrico che ha letteralmente dato volto alla pop art classificandosi come uno degli artisti più influenti del XX secolo.
Stiamo parlando di Andy Warhol.
Impossibile riassumere in poche righe l’importanza del suo lavoro, ma concentrandosi su alcune delle copertine da lui firmate, c’è un aggettivo che le accomuna tutte: provocatorie.
La più famosa di tutte è probabilmente quella dell’album Velvet Underground & Nico, del 1966, soprannominato il “banana album“.
Si tratta di uno degli album più controversi della storia del rock, un mix di molti sottogeneri di musica rock, con un pizzico di musica alternativa, e una prima infarinatura di punk.
E se l’album di per sé poteva sconvolgere il pubblico di quegli anni, allora tanto valeva andare fino in fondo con una copertina altrettanto alternativa.

“Peel slow and see” – letteralmente: sbuccia piano e guarda – è la frase riportata sulla copertina per incitare le persone a compiere realmente l’azione di sbucciare la banana (la cui stampa infatti era coperta da una pellicola adesiva) per scoprirne il colore interno: un bel rosa shocking.
*Curiosità bonus: un’altra opera “interattiva” di Warhol che è rimasta nella storia, è la copertina dell’album Sticky Fingers dei Rolling Stones. Qui si vede l’inquadratura della zona pubica di un uomo che indossa un paio di jeans, con tanto di cerniera che si può aprire.
Ma vediamo ora una copertina che pur non essendo firmata da un grande artista del calibro di Warhol, ha comunque catturato l’attenzione di molti diventando iconica.
Dice nulla The dark side of the moon?
Dulcis in fundo
Se esiste una copertina famosa anche solo a livello iconografico, quella è The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, album pubblicato nel 1973 dalla Harvest Records.
L’autore di questa opera è Storm Thorgerson, un fotografo che si improvvisa grafico per accontentare la richiesta di Richard Wright, il tastierista della band.
L’ispirazione viene da un testo di fisica, mentre il disegno è opera di uno degli artisti dello studio di Thorgerson, George Hardie. Il prisma viene scelto per celebrare lo spettacolo di luci che i Pink Floyd mettevano in scena durante i loro concerti, e il triangolo invece, in quanto figura molto simbolica, rappresenta i testi di Rogers Waters.

Proprio come ha voluto Waters, nella parte esterna della copertina i due prismi si collegano. In quella interna invece prosegue il disegno di un battito cardiaco, riferimento al battito riprodotto da una grancassa imbottita che si sente sia all’inizio che alla fine dell’album, e che rappresenta la natura umana e la necessità di provare empatia nei confronti dell’altro.
Nella sua semplicità, questa copertina è riuscita a colpire molti diventando tanto iconica da diventare frequente come stampa su felpe e t-shirt distribuite in tutto il mondo.
Ma sempre a proposito di fama, vediamo ora l’ultima copertina da museo di questa rassegna, facendo un balzo nei primi anni del 2000.
Parliamo dei Blur e dell’album Think Tank, del 2003.
A firmare questa bella copertina, è il graffittaro più famoso degli ultimi vent’anni: Bansky.

L’artista noto per le sue opere provocatorie è invece sconosciuto per quanto riguarda la sua vera identità, e rimane anonimo anche quando inizia a collaborare con i Blur.
Le vendite dell’album, ovviamente, non deludono e certamente non lo fa nemmeno la cifra per la quale quest’opera di Bansky viene battuta all’asta nel 2013.
2.013.510 dollari.
Questa la cifra da record con la quale viene valutata la decima e ultima copertina della nostra piccola rassegna.
Se ci fermiamo a riflettere però, magari mettendo su un bel disco, esistono migliaia di opere come queste, che grazie alla miscela esplosiva di rock, arte e graphic design hanno sconvolto intere generazioni diventando emblemi della musica e dell’arte.
E se ci pensiamo, allora sì che diventa facile concedersi qualche minuto in più per assaporare la sensazione di avere tra le mani qualcosa che va oltre il marketing e l’appeal, ma che rappresenta il genio di grandi artisti.
Prendendo queste copertine in mano, abbiamo infatti l’opportunità di entrare un po’ di più a contatto con la realtà di questi artisti. Avere in mano un vinile può trasportarci in un incredibile mondo: possiamo entrare in un luogo magico in cui musica e arte si intrecciano regalandoci un pizzico di quella follia e di quella genialità.