Il nuovo che nasce dalla fusione

Nel bel mezzo di un flusso costante di novità culinarie e di riscoperte di antichi sapori capita, spesso e volentieri, di sentir parlare di cucina Fusion. Fusion? Ebbene sì, in un mondo sempre più globalizzato, dove quotidianamente culture lontanissime si incontrano, si fronteggiano e si influenzano, è del tutto normale che possano nascere dei fenomeni di fusione in grado di creare qualcosa di nuovo.
Il termine Fusion, tuttavia, viene in moltissimi casi usato come parola jolly, andando così a indicare tutto e niente, tendendo a svalutarne i contenuti.
Quante volte, infatti, si va a parlare di Fusion per pietanze come quell’abominio del sushi fritto (non me ne vogliano gli estimatori di questo esperimento borderline, ma per uno studioso nonché appassionato di Giappone, certe cose sono un colpo al cuore, ndr), senza invece prendere in considerazione vere e proprie opere d’arte frutto dell’ingegno di attenti e preparatissimi chef?
Le due matrici: Uomo versus Natura

Primo doveroso pit stop. Volendo andare ad approfondire la questione Fusion, di cui si avrà modo di fornire quello che forse ne è l’esempio per eccellenza, è forse il caso di fare qualche precisazione preventiva, specialmente a livello terminologico.
Cosa è Fusion quindi? Orbene (giusto per essere aulici e darsi un tono), quando si parla di Fusion si intende una tipologia di cucina frutto dell’unione di due differenti tradizioni gastronomiche, che dà vita a qualcosa di nuovo e assolutamente originale grazie alla loro combinazione.
Questa delicata operazione, può considerarsi tale, sia quando avviene in maniera artificiale, che assolutamente naturale, andando a comprendere in questi casi delle forme di ibridazione che potrebbero tranquillamente essere degne di un approfondimento antropologico.
Alla base di tutto, il genio

Ma veniamo alla prima tipologia: lasciando da parte l’esempio della frittura di sushi, solitamente hosomaki, questa viene originata da uno studio approfondito di tecniche e materie prime, seguito da sperimentazioni e tentativi, normalmente operati da cuochi professionisti che sono riusciti ad assurgere al rango di chef.
Una semplice e chiarificatrice dimostrazione? Basta far tappa a Berlino, al locale presente nella classifica dei 50 best restaurants guidato da Tim Raue, sul cui menù sono presenti dei dim sum, classici ravioli di origine cinese (in realtà il concetto è però ben più ampio), farciti con ingredienti tipicamente europei, come topinambur e tartufo, che vanno poi ad accostarsi anche a una pancia di maiale laccata sempre secondo una moda orientaleggiante.
La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella
Anthelme Brillat-Savarin
L’ingrediente segreto: la storia umana

Volendo invece cambiar genere, facendo riferimento a un approccio di stampo più naturale, abbiamo invece a disposizione una cucina Fusion figlia delle vicende umane. Originatasi sempre dalla mescolanza di elementi eterogenei, che si sono però incrociati grazie a commerci, conquiste militari (a tal proposito basta prendere come punto di riferimento l’Impero Ottomano, arrivato ad estendersi dalla Turchia al Nord Africa e dal Medio Oriente ai Balcani fino a raggiungere l’ungherese Budapest) o ancora fenomeni migratori.
Questi ultimi, tra l’altro, essendo all’origine di vere e proprie comunità nazionali in Paesi terzi, hanno ulteriormente facilitato la commistione tra la rispettiva cultura gastronomica e quella del territorio ospitante, creando un nuovo tratto culturale in grado di trascendere qualsiasi moda del momento.
Finalmente la cucina Nikkei!

Un esempio di Fusion di questo tipo? Senza dubbio quella Nikkei, dove a fondersi sono nientemeno che la tradizione giapponese e le varie gastronomie tipiche del Sud America, in particolare di Perù, Cile e Brasile.
Da cosa nasce però questa (fortunata) unione? Come anticipato giusto qualche riga fa, spesso sono le migrazioni a innescare tali fenomeni, proprio come avvenuto in questa specifica fattispecie, nata sul finire dell’Ottocento, dopo l’apertura del Giappone al mondo esterno al termine della secolare chiusura promossa dal governo dello Shōgun. Un’ondata decisamente consistente, tra l’altro, si ebbe a seguito della guerra contro la Russia del 1905, quando, vista la difficoltà di riassorbire i soldati nella vita pubblica di un Paese ancora sulla via della modernizzazione, molte famiglie preferirono tentare la fortuna altrove.
Tra le principali destinazioni, comprendenti anche Hawaii e Stati Uniti, la maggior parte andò a interessare l’altra sponda dell’Oceano Pacifico, soprattutto per via di alcune particolari congiunture economiche ma anche per una sorta di contiguità geografica.
L’approccio con il Nuovo Mondo

In questi nuovi lidi, insieme al clima e alle popolazioni differenti, fu necessario prima di tutto adattarsi ai nuovi ingredienti, tra cui bisogna ovviamente annoverare tantissime specie vegetali, corrispondenti a verdura e frutta tropicali all’epoca ancora sconosciute nell’Arcipelago nipponico.
A ciò bisogna poi aggiungere un nuovo approccio con la carne, che prima di allora era sempre stato alquanto limitato, dal momento in cui fino alla Restaurazione Meiji (1868-1912), la caccia e la macellazione dei capi di bestiame era proibita in patria per questioni religiose, circoscrivendo il consumo di proteine animali al solo pesce.
Per contro, nelle Americhe meridionali e soprattutto in Brasile, l’allevamento con scopi alimentari, specialmente dei suini, era già ben radicato e perciò si andò a riflettere anche sulle abitudini dei nuovi arrivati.
È pronto in tavola!!!

Cosa nasce allora dalla ‘Fusion’ tra Washoku (termine giapponese per indicare la rispettiva cucina nazionale) e tipicità peruviane, cilene e brasiliane? È presto detto, dal momento in cui si ha un menù particolarmente vasto dove condimenti tipicamente asiatici come la salsa di soia o il mirin, si vanno ad accostare a una pancia di maiale cotta appositamente per ore e ore in una crosta a base di riso; senza poi contare l’accostamento tra il pescato e la ponzu con l’avocado tipico di queste latitudini ai margini o già al disotto dell’Equatore.
Una menzione particolare la meritano poi le declinazioni in stile giapponese delle ceviches, dove, insieme alle componenti classiche di questa prelibatezza a base di pesce marinato (e non solo) tipiche di Lima (ma anche di tutta la fascia costiera del Perù in generale), fanno la loro comparsa ingredienti come il dashi, un brodo realizzato con un particolare tipo di tonnetto essiccato e affumicato.
Esattamente come sono stati nipponizzati piatti sudamericani, sono state sudamericanizzate ricette giapponesi, come il sushi e il sashimi, volendo andare su uno dei casi più macroscopici, con nigiri Fusion in cui appaiono in tutta tranquillità aji amarillo (un tipo di peperoncino giallo) e leche de tigre (la marinata della chevice, per dirla in breve).
Il rispetto prima di ogni cosa

Come ci dimostrano quindi la cucina Nikkei, ma anche l’impegno di chi mette l’anima nel proprio lavoro, la Fusion non è un concetto vacuo, buono semplicemente per fare i fighetti alternativi con gli amici (per carità!), ma è prima di tutto un fenomeno culturale di tutto rispetto, e come tale va trattato, senza preconcetti e senza storcere il naso.
Del resto, giusto per ribadire un concetto abbastanza noto ai più (in alcuni casi, forse, trito e ritrito), come tutte le cose anche la gastronomia è in continua evoluzione, mutando costantemente, e talvolta, questa trasformazione, si attua anche tramite unprocesso di fusione, indotta o fisiologica che sia.